Jacques Tourneur, la riscoperta di un grande autore

Il Festival di Locarno omaggia il famoso regista francese


LOCARNO – Anche quest’anno la retrospettiva del Festival di Locarno ha procurato ai cinefili scoperte ed emozioni, confermandosi uno dei punti di forza della manifestazione. Quest’anno Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi, i due curatori, hanno proposto uno dei nomi più magici per la cinefilia, Jacques Tourneur, mobilitando attorno a questo regista francese che ha lavorato molto a Hollywood (e un po’ anche in Italia) i nomi più esclusivi della critica internazionale, da Jean Douchet a Pierre Rissient, Da Charles Tesson a Chris Fujiwara.

Tourneur è noto soprattutto per alcuni fortunati horror prodotti negli anni Quaranta da Val Lewton (Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombie, L’uomo leopardo) e per un noir del 1947 nel quale giganteggiano Robert Mitchum e un giovanissimo Kirk Douglas (Le catene della colpa). In realtà, vedere tutti insieme i suoi film ci restituisce la dimensione di un artista davvero poliedrico, capace di misurarsi con tutti i generi e sempre con ottimi risultati.

Tourneur era figlio d’arte, suo padre Maurice era stato un regista importante all’epoca del cinema muto. Ha iniziato facendo il montatore (“Questo mi è stato utilissimo, giravo pochissimi ciak perché avevo già ben chiaro come sarebbe stato il montaggio, rendeva tutto più veloce e soprattutto impediva ai produttori di modificare a loro piacimento la storia che avevo in mente”), ben presto è diventato un regista cui si poteva affidare qualsiasi soggetto sapendo che sarebbe stato capace di terminare il film (“E infatti non ho mai rifiutato un soggetto in tutta la mia carriera”). Fisicamente ricordava un po’ Hitchcock, che peraltro era uno dei suoi registi preferiti. Nelle interviste che ha rilasciato negli anni Settanta alla televisione francese si mostra ironico, ricco di sense of humour, molto disponibile a raccontare aneddoti relativi a tutti i suoi film. Aveva ottimi rapporti con quasi tutti gli attori con i quali ha lavorato (in modo particolare con Dana Andrews e Joel McCrea), rivendicava una cura maniacale per come illuminava il set, dichiarava di odiare tutte le lungaggini (“Non c’è niente di più noioso di vedere uno che esce di casa, chiude la porta, scende le scale, apre la macchina, parte per la sua destinazione; nei miei film queste zone morte non ci sono mai”). Credeva nel soprannaturale e proprio per questo riteneva che le cose che non si vedono fanno più paura di quelle mostrate: e infatti i suoi più affascinati horror non mostrano creature straordinarie (come Il bacio della pantera) oppure danno ai demoni una forma puramente gassosa (come in La notte del demonio). Come molti autori europei trasferiti a Hollywood, mostra di aver capito lo spirito americano molto meglio degli americani stessi.

Se il maggior regista di western (il cinema americano per eccellenza, come diceva il padre dei Cahiers du Cinèma Andrè Bazin) è stato l’irlandese John Ford, anche Tourneur ci racconta nei suoi western come sia avvenuta la costruzione della grande nazione americana. In Wichita Joel McCrea interpreta il mitico sceriffo Wyatt Earp, che giunge in una città di frontiera e mostra agli avidi negozianti come sia indispensabile per il progresso punire gli esagitati, accettando anche di rinunciare per un po’ ai soldi che questi lasciano nei saloon per ubriacarsi. E in Stars in my Crown sempre Joel McCrea, nel ruolo di un pastore d’anime che non disdegna di portare la pistola, convince a modo suo un arrogante possidente che espropriare con la violenza il terreno di uno schiavo liberato non è il modo migliore per costruire un impero economico.

Torneur ha mostrato anche la Berlino dell’immediato dopoguerra in Il treno ferma a Berlino, con immagini che si possono sovrapporre a quelle del capolavoro di Rossellini Germania anno zero. Ha frequentato la Cinecittà dei kolossal dirigendo il culturista più famoso, Steve Reeeves, in La battaglia di Maratona. Ha reso Hedy Lamarr castigata e intensa in Schiava del male. Ha creato molto divertimento e lasciato molti insegnamenti, uno più importante di tutti: le lungaggini annoiano, la concisione e il ritmo sono indispensabili se si vuole raccontare una storia.

Caterina Taricano
09 Agosto 2017

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