Intrigo e desiderio a Venezia

È un noir ma al tempo stesso una denuncia sociale la pellicola thailandese che apre le Giornate degli Autori, Samui Song, storia di un’attrice di successo che vive schiacciata dall'ambiente maschilist


VENEZIA – È un intrigo noir ma al tempo stesso una denuncia sociale la pellicola thailandese in concorso alle Giornate degli Autori, Samui Song di Pen-ek Ratanaruang. Storia di un’attrice orientale apparentemente di successo, che vive oppressa dal ricco marito occidentale affascinato da una setta buddista e, al tempo stesso, schiacciata dall’ambiente maschilista che la circonda e non le concede alcuna vera possibilità di espressione, che si tratti di matrimonio, carriera o sessualità. “Non è un caso che il personaggio principale del mio film sia un’attrice –  sottolinea il regista considerato uno dei pionieri della new wave cinematografica orientale e i cui lavori hanno più volte rappresentato la Thailandia agli Oscar per il miglior film straniero. “In Thailandia una donna per avere successo deve sempre saper interpretare bene il suo ruolo sociale, in questo senso tutte le donne sono, in fondo, attrici.  Devono essere al tempo stesso obbedienti con i genitori, sottomesse con i mariti, carine con i fidanzati, mostrarsi subalterne ai loro capi sul lavoro e autoritarie con i figli a casa”. Una continua recitazione in cui la donna, per avere una vita socialmente adeguata, deve sempre soddisfare le aspettative altrui, indipendentemente dai propri desideri, dalle attitudini o dalla classe sociale di provenienza. “Quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura pensavo che rappresentasse bene la condizione della donna in Thailandia, col tempo sono arrivato a ritenere che, in un modo o nell’altro, il film ritragga il ruolo della donna in molte culture”. La protagonista tenta di tutto per liberarsi dal suo ambiente oppressivo, fino a rimanere coinvolta in un delitto che la costringe a fuggire o, meglio, a scomparire. Ma proprio quando crede che sia tutto a posto, la felicità ritrovata si rivela di breve durata. “L’isola Samui evocata dal titolo rappresenta la felicità della protagonista, il breve momento in cui si sente libera. Ma è una condizione illusoria e fugace, tant’è che letteralmente il titolo originale del film (Mai Mee Samui Samrab Ter), vuol dire ‘Non c’è Samui per lei’, non c’è felicità possibile al femminile, né Paradiso.
Sullo sfondo del film le vicende di una setta che pratica un culto buddista alternativo, guidata da un carismatico e moralmente discutibile leader chiamato il Santo. “Negli ultimi dieci anni le persone sono diventate molto disilluse nei confronti della corrente principale del buddismo, anche a causa dei sempre più numerosi scandali legati a monaci corrotti o al giro di denaro che ruota intorno ai templi e alle attività religiose. Sono nati, così, numerosi culti alternativi e la religione si è trasformata in un affare conveniente che fa spesso leva più sulla superstizione delle persone che sulla loro spiritualità. Ma anche sul senso generale di insicurezza insito nel popolo thailandese conseguente alla situazione politica perennemente instabile. Siamo un popolo insicuro che ha bisogno, per andare avanti, di certezze cui aggrapparsi, e la religione è una di queste. E’ il ‘business dell’insicurezza’, dall’incertezza nascono le attività lucrative della nazione”.

Racconta, invece, di un padre che prova a connettersi al figlio defunto che non ha mai conosciuto e che non sapeva di avere, il secondo film in concorso oggi alle Giornate, Longing, pellicola israeliana che esplora la condizione dell’essere genitori, indagandone anche gli aspetti più nascosti che vanno oltre la generosità e la responsabilità comunemente attribuite al ruolo. “Il protagonista è un uomo alla ricerca della propria paternità, ma la sua è una condizione generale che vuole rappresentare la genitorialità In tutte le sue forme”, sottolinea il regista Savi Gabizon che rivela come l’idea del film risalga all’epoca in cui, dieci anni fa, suo figlio aveva iniziato a giocare a calcio: “Mi sono accorto che quando assistevo alle sue partite ogni volta che toccava il pallone la mia gamba si muoveva un po’, giusto di qualche millimetro. Il viaggio del film parte proprio da quel movimento quasi impercettibile che racchiude tutta l’energia e la vibrazione della condizione dell’essere genitore”. Un percorso verso la consapevolezza di sé che passa dall’egoismo e dalla chiusura iniziale del protagonista, alla generosità e all’apertura verso gli altri. Dalla freddezza razionale al calore emotivo. Man mano che il padre scopre le vicende della vita passata del proprio figlio, anche e soprattutto quando si tratta di nefandezze, si avvicina di più a lui, si sente genitore e abbandona una volta per tutte la sua condizione di essere solitario ed egocentrico. “Il film è un viaggio alla scoperta di se stessi, sulla traccia del desiderio verso qualcosa che non si potrà mai avere, e in cui la ritrovata paternità rivela qualcosa di sé e del proprio modo di stare al mondo”. 

Carmen Diotaiuti
30 Agosto 2017

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