Da Israele arriva il surreale Foxtrot

In Lebanon, il film del 2008 con cui aveva vinto il Leone d'oro qui a Venezia, tutto accadeva all'interno di un tank. Stavolta Samuel Maoz costruisce invece un film tripartito e complesso


VENEZIA – In Lebanon, il film del 2008 con cui aveva vinto il Leone d’oro qui a Venezia, tutto accadeva all’interno di un tank. Stavolta Samuel Maoz costruisce invece un film tripartito e complesso, che gioca sui piani temporali e ha molto a che fare con la nozione filosofica del destino in un paese in guerra perenne come Israele. Ecco allora, in concorso, Foxtrot, opera al tempo stesso surreale, iperrealista e teatrale che cerca di stupire lo spettatore e spesso ci riesce. Nel primo capitolo due militari portano la notizia che il giovane Jonathan è morto. La madre Dafna (Sarah Adler) cade svenuta mentre il padre Michael (Lior Ashkenazi), un architetto pieno di sé, non credente e disincantato, reagisce con aggressività non celata alla burocrazia delle esequie militari e alle condoglianze dei familiari. Nel secondo capitolo troviamo Jonathan ancora vivo: è di stanza insieme a tre commilitoni altrettanto giovani a un posto di blocco nel deserto e passa il tempo, tra una macchina da controllare e l’altra, disegnando fumetti. Mentre nel terzo e ultimo capitolo Dafna e Michael sono da soli, uno di fronte all’altra, e conducono un confronto serrato che getta luce retrospettiva su tutta la vicenda. Di più non è giusto rivelare, ma diciamo che il destino – o forse Dio stesso – gioca con questa famiglia come il gatto col topo. Del resto Maoz ha scelto il “foxtrot” proprio perché è una danza che ti riporta sempre al punto di partenza. 

“Volevo fare un viaggio emotivo diviso in tre sequenze: la prima scioccante, la seconda soffice e calorosa e la terza, infine, commovente. Una sorta di tragedia greca in tre atti – ha spiegato il regista – E tutto questo non attraverso un cinema realistico, ma in maniera sperimentale. Al centro di Foxtrot c’è l’idea di destino, di un puzzle filosofico che cerca di rompere il concetto di questa parola e che è la spina dorsale di tutto il film. Ma dentro c’è ovviamente anche e soprattutto il mio mondo intimo”.

Il film nasce infatti da un’esperienza personale del regista: “Mia figlia a Tel Aviv era solita andare a scuola con il taxi perché si alzava sempre tardi. Così un giorno le ho detto: perché non prendi l’autobus, il numero 5? Ed è quello che ha fatto la mattina dopo, proprio il giorno in cui un gruppo di terroristi ha fatto un attentato su quella linea. Per circa un’ora non ho saputo nulla di lei, se fosse viva o morta. Poi mi ha chiamato: aveva preso l’autobus successivo perché era in ritardo”. 

Infine a chi gli chiede qual è l’impatto che i suoi film dovrebbero avere sulla società israeliana, risponde: “Quando scrivo una sceneggiatura, faccio per forza molte considerazioni politiche e sociali. Mi piacerebbe far cambiare idea almeno a una persona, ma non sono così ingenuo da pensare che i miei film possano avere un impatto fortissimo sulla nostra società. E poi i miei lavori girano soprattutto attorno all’idea di fede”. 

Cristiana Paternò
02 Settembre 2017

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