Valentina Pedicini e il piccolo genocidio svizzero

La documentarista esordisce con un maturo film di finzione, il drammatico Dove cadono le ombre (Giornate degli Autori), con Elena Cotta e Federica Rosellini, in sala il 6 settembre con Fandango


VENEZIA. L’avevamo conosciuta e apprezzata come autrice del documentario Dal profondo – premiato alla Festa di Roma 2013 – sull’unica minatrice italiana, che lavorava come tecnico nella miniera sarda di carbone Carbosulcis di Nuraxi. E ora Valentina Pedicini esordisce con un maturo film di finzione, il drammatico Dove cadono le ombre (Giornate degli Autori-Selezione ufficiale), che esce in sala il 6 settembre con Fandango che lo ha anche prodotto con Rai Cinema.
Anna (Federica Rosellini) e Hans (Josafat Vagni), infermiera e assistente di un istituto per anziani, l’ex orfanotrofio dove hanno vissuto un’infanzia infelice e di violenze, vivono come imprigionati dal loro passato, come se non ci fosse un altro luogo più accogliente. Da quel terribile passato riappare Gertrud (Elena Cotta), ora  una vecchia signora a tratti gentile. Torna con lei l’incubo dell’istituto un tempo ricovero di bambini jenish (etnia zingara di origine germanica) sottratti alle famiglie e vittime di un progetto di eugenetica guidato proprio da Gertrud.
Anna sfiderà allora quell’infanzia dolorosa che sembra non terminare mai, cercando l’amica del cuore di un tempo, allora scomparsa.

All’origine di Dove cadono le ombre c’è il lavoro di preparazione per un documentario – l’idea non è stata abbandonata dalla regista – su una storia poco conosciuta avvenuta in Svizzera dal 1926 al 1986, quando un’associazione filantropica, la Pro Juventute sottrae tra i 700 e i 2000 bambini alle famiglie jenisch per estirpare il fenomeno del nomadismo. I bambini vengono rinchiusi in ospedali psichiatrici, orfanotrofi dove subiscono abusi, esperimenti scientifici, pratiche mediche violente come la sterilizzazione per cancellare la loro identità.
Di molti non si avranno più notizie. Un “piccolo genocidio” che non ha mai avuto un colpevole: nessuna condanna, non per i medici, non per i politici e i burocrati coinvolti, nessun indennizzo.

Valentina Pedicini è venuta a conoscenza di questa terribile vicenda rimossa con la lettura delle opere di Mariella Mehr, poetessa e scrittrice jenish, una delle pochissime sopravvissute a questo dramma. “Ho cercato questa donna nelle varie cliniche psichiatriche in cui mi dicevano che era rinchiusa finché l’ho trovata in Svizzera – spiega la cineasta – Abbiamo lavorato insieme a un percorso documentaristico di testimonianza sulla sua vita. Mariella è molto conosciuta in Germania e Austria, ma non ha mai scritto un’autobiografia, ha sempre raccontato in maniera astratta della vicenda degli jenish. Ho testimonianze visive di lei che forse accompagneranno l’uscita in DVD del film”.
Tanti elementi e suggestioni del film arrivano dal racconto della Mehr, un materiale emotivo ed umano che ha dato vita a una sceneggiatura originale, grazie a Francesca Manieri, che non riguarda la sua vicenda.

“Questo mio esordio è un film che denuncia una storia sconosciuta, ma non fornisce una ricostruzione storica, non volevo un film storiografico, volevo accendere una luce su queste ombre come recita il titolo, su questi bambini privati dell’identità, delle radici.
La 87enne Elena Cotta, Coppa Volpi 2013 per Via Castellana Bandiera – ha dato al ruolo di Gertrud  “l’estrema rigidità, l’ironia, l’ambiguità di questo personaggio che non è la ‘cattiva’ delle favole ma ha elementi di umanità e un’affezione ai principi dell’eugenetica per quanto terribili”, dice la Pedicini.
La ricerca dell’attrice per il ruolo di Anna è stata più lunga, anche se la regista aveva apprezzato Federica Rosellini a teatro tre anni fa e a lei aveva subito pensato. “Volevo un viso sconosciuto, nuovo  al cinema. Il film è scritto sull’evoluzione del personaggio di Anna, racconta il suo scongelamento dell’animo e la decompressione del corpo. Federica è la grande scommessa di questo mio importante esordio”.

Il film è stato girato a Roma in 5 settimane, interamente con luce naturale e all’interno di un ospedale romano dismesso. Dal punto di vista della fotografia il film dà una sensazione di gabbia, di cattività, pochissimi sono gli esterni. “Volutamente non si capisce dove siamo, un film astratto che non dà indicazioni di tempo e di spazio, molto costruito sui corpi, sui volti, sull’interiorità compromessa. E lo spettatore si perde in questo microcosmo”.

Una favola nera? “Sì, più che per l’ambientazione claustrofobica visiva e di scrittura, per gli archetipi. La relazione che lega i tre protagonisti, Anna, Hans e Gertrud rimanda alla favola di Hänsel e Gretel con questa madre cattiva, alla vicenda di questi bambini che vengono sottratti e rinchiusi. Il film ha delle atmosfere che rimandano all’astrazione della favola, ma non c’è la morale finale della favola”, avverte l’autrice.
Alla fine c’è chi ha dimenticato le proprie origini, Fransiska, chi ha avuto il coraggio di andare via, Anna, chi rimane in quel luogo, Hans, e c’è chi rimane incastrato nel mondo che ha costruito e di cui è stata per anni la regina assoluta, Gertrud.

ssr
03 Settembre 2017

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