1947, l’India si divide

Una storia molto personale e ancora dolorosamente attuale, quella raccontata in Il Palazzo del Vicerè, il film della regista anglo-indiana Gurinder Chadha, in sala con CINEMA


Una storia molto personale e ancora dolorosamente attuale, quella raccontata in Il Palazzo del Vicerè, il film della regista anglo-indiana Gurinder Chadha, fuori concorso alla Berlinale e ora in sala dal 12 ottobre con CINEMA. I suoi nonni, originari del Punjab, si trovarono fisicamente separati per alcuni mesi nel tumultuoso periodo della partizione tra India e Pakistan avvenuta nel 1947, un processo che provocò l’esodo di 14 milioni di persone e la morte di un milione di esseri umani. Un’eredità tragica della dominazione britannica con il subcontinente finalmente indipendente ma in preda alla guerra civile tra le tre grandi comunità: musulmani, hindu e sikh.

Ora la 57enne regista di Sognando Beckham, cresciuta a West London e nata a Nairobi, in Kenya, racconta questi eventi in un affresco storico dall’impianto tradizionale che corre su doppio binario. Da una parte la descrizione del processo politico e diplomatico che portò alla partizione e di cui furono attori protagonisti l’ultimo vicerè Lord Mountbatten da parte inglese (ma in realtà il vero cervello dell’operazione era stato Churchill, ansioso di salvaguardare gli interessi economici britannici nell’area) e i leader locali: Ghandi, Nehru e l’islamico Jinnah, padre fondatore del Pakistan.

Dall’altra parte racconta l’amore impossibile tra due dei centinaia di impiegati dell’imponente Palazzo, simbolo vivente dell’Impero britannico: l’hindu Jeet e la musulmana Aalia, divisi dal destino. Interpretato da Hugh Bonneville (Downton Abbey) e Gillian Anderson (X-Files) nel ruolo del vicerè e della sua intraprendente consorte, il film si segnala anche per l’ultima interpretazione del grande attore indiano Om Puri, scomparso a gennaio di quest’anno, nel ruolo del vecchio padre cieco di Aalia: “Era entusiasta di tornare a parlare della storia del suo paese 35 anni dopo Ghandi – racconta Gurinder Chada – anche se non ha fatto in tempo a vedere il film, penso che gli abbia fatto piacere far parte di un progetto che invita alla comprensione e alla riconciliazione tra i due paesi”. 

La sceneggiatura, scritta con Paul Mayeda Berges e Moira Buffini, sulla base di due libri (“Freedom at Midnight” di Larry Collins e Dominique Lapierre e “The Shadow Of The Great-Game – The Untold Story Of Partition” di Narendra Singh Sarila), ha richiesto ben sette anni di lavoro. “E’ un periodo traumatico per una come me, cresciuta all’ombra della divisione”, spiega Chadha. “Quando qualcuno da piccola, in Inghilterra, mi diceva torna al tuo paese, beh, facevo fatica a immaginarlo, perché quello che un tempo era stato il mio paese, ai piedi dell’Himalaya, era diventato il Pakistan”. 

“Quando sono tornata per la prima volta in quei luoghi – racconta ancora la regista – gli abitanti del villaggio sapevano chi ero e mi aiutarono a cercare quella che era stata la casa dei miei padri, una bella casa con un cortile, costruita con tanto amore, dove adesso vivevano cinque famiglie. Anche loro erano stati profughi, come noi, fuggendo dall’India verso il Pakistan. In quel momento ho capito cosa significa perdere tutto in una notte. E mentre giravamo il film ci arrivavano le immagini dalla Siria, ancora una volta la storia riproponeva queste tragedie, l’immagine del piccolo Aylan morto sulla spiaggia era su tutti i giornali mentre io raccoglievo migliaia di comparse per ricreare un campo profughi nel 1947”. 

Intenzione della regista era raccontare la partizione dal punto di vista delle persone ordinarie più che riscrivere una pagina di storia. “Io non vedo tutte queste barriere tra noi, per chi è originario del Punjab ci sono tanti legami culturali, il cibo, la lingua, la musica, siamo ancora uniti, ma non ce ne rendiamo conto”, dice. E tuttavia non mancano obiezioni sulla resa storica della vicenda, dalla rivalutazione di Lord Mountbatten alla visione di un Ghandi che si astrae dal processo. “Se fai un film su episodio storico, ti devi documentare – replica la combattiva regista – fai ricerche, parli con gli storici, interpelli qualche testimone diretto di quegli eventi, settant’anni dopo, ma poi arriva il momento di dare la tua interpretazione. Come dico all’inizio del film, la storia è scritta dai vincitori, c’è sempre un punto di vista particolare di qualcuno. Noi diciamo la nostra. Gandhi era stato emarginato dal processo, era contrario alla divisione del paese e nel giorno della firma del trattato scelse il silenzio, non prese parte a nessuna celebrazione dell’indipendenza, era a Calcutta e dormiva. Quanto a Mountbatten, molti indiani danno tutte le colpe a lui, ma i documenti ci dicono il contrario, quell’uomo fu la marionetta di un disegno più grande della geopolitica di allora e forse anche di oggi. È stato usato in nome di interessi più grandi”. 

Di sicuro emerge la sua intenzione di pacificare gli animi. “Credo che questo sia un film con una sensibilità britannica e un cuore punjabi. Molti film indiani su questo periodo demonizzano l’altro schieramento, ma questo non fa che alimentare i conflitti e il ‘divide et impera’. Dobbiamo andare avanti. Per questo reputo importante far vedere il mio film a Londra, a Dehli e a Lahore”. E non manca un riferimento alla Brexit. “E’ successo mentre eravamo al montaggio e il nostro editor Valerio Bonelli, che è italiano, era molto preoccupato perché ha due figli, vive a Londra e non sa cosa succederà. Oggi la politica dell’odio e della divisione è di nuovo così prevalente non solo in America con Trump, ma anche qui in Europa. Questo film ci ricorda cosa accade ad alimentare l’odio e la divisione e criminalizzare un gruppo persone. La storia è piena di queste lezioni ma non le vogliamo ancora accettare”.

Cristiana Paternò
27 Settembre 2017

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