In sala il 1° marzo il film sulla strage di Aurora

Dopo il passaggio a Venezia nella sezione Orizzonti, Dark Night di Tim Sutton è al cinema con Mariposa


E’ il 20 luglio 2012. All’interno del cinema Century 16 di Aurora, in Colorado, tutti attendono frementi la prima del film The Dark Knight Rises, terzo capitolo della saga di Batman diretta da Christopher Nolan. Durante la proiezione di mezzanotte, un uomo armato, vestito in abbigliamento militare, si introduce in sala e spara sulla folla, lanciando anche granate di gas lacerimogeni. Dodici persone persero la vita e altre 70 rimasero ferite. Il caso esplose sui media e nella confusione fu difficile risalire alle motivazioni: qualcuno sottolineò che il giovane aveva i capelli rossi “come il Joker” (che in verità li ha verdi), ma già dopo qualche ora fu chiaro che la tragedia, con il film, non ci entrava molto.

L’autore della strage, James Eagan Holmes si configurò ben presto come un giovane disturbato che fino ad allora non aveva mai commesso prima alcun reato, fatta eccezione per alcune multe. Molti psichiatri gli hanno diagnosticato una forma di disturbo schizofrenico o schizoaffettivo, sia prima che dopo il processo. Dopo gli omicidi, Holmes, affidato alle cure di uno psichiatra nominato dal governo, dichiarò che la recente rottura con la sua fidanzata aveva contribuito alla sua depressione violenta.

La vicenda è raccontata nel film di Tim Sutton Dark Night, in uscita il 1° marzo con Mariposa Cinematografica, dopo il passaggio alla 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – sezione Orizzonti dove ha conquistato il Premio Lanterna Magica. Cinematograficamente nasce al Sundance 2016, dove ha conquistato il pubblico con la sua atmosfera inquietante e rarefatta e la narrazione lenta, claustrofobica e pesante che ricorda a tratti alcune prove di Gus Van Sant.

“Per girare Dark Night – racconta l’autore  – ho avuto sedici giorni. Avevo una sceneggiatura molto precisa. Ho tagliato alcune scene che pensavo non aiutassero la narrazione. Ci sono alcune scene che mi sono davvero piaciute ma che ho tagliato. L’andamento narrativo doveva essere come un imbuto, in un certo senso, sempre più stretto. È un film abbastanza duro così com’è e non volevo portare la gente fuori da questa spirale. E così siamo andati avanti in termini di atmosfera da thriller, piuttosto che rappresentare momenti reali. Era molto importante per me che il film facesse sentire come se qualcuno potesse morire da un momento all’altro. C’è sempre qualcosa là fuori, fuori dallo schermo. Quello che volevo fare era mostrare qualcuno che non dovrebbe avere accesso alle armi, ma allo stesso tempo volevo dimostrare anche che tutti hanno problemi di salute mentale, e in America, specialmente in periferia, questa cosa sta allontanando le persone tra loro”.

Andrea Guglielmino
05 Febbraio 2018

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