Eldorado, la tragedia dei migranti torna a Berlino

A due anni dall’Orso d’Oro a Fuocoammare di Gianfranco Rosi, la Berlinale torna a parlare di migranti e strage del Mediterraneo con il regista svizzero Markus Imhoof


BERLINO – C’è tanto ancora da dire e da mostrare sul problema dei rifugiati in Europa e su quelle tante, troppe, persone e storie invisibili. Così, a due anni dall’Orso d’Oro a Fuocoammare di Gianfranco Rosi, la Berlinale torna a parlare di migranti e di strage del Mediterraneo con il regista svizzero Markus Imhoof e il suo , fuori concorso, Eldorado: “Io e Rosi abbiamo iniziato più o meno contemporaneamente a girare, ma la tematica è così ampia che si può raccontare molte volte e da diversi punti di vista. Io mi sono concentrato di più sul macchinario nel suo insieme, su un’ottica più panoramica in grado di mostrare come funziona questo sistema che amministra gli stranieri, progettato per respingere i rifugiati a tutti i livelli”. Un documentario, Eldorado, che affonda le radici nella vita del regista, che affronta nuovamente il tema dei rifugiati dopo il suo precedente The Boat is Full, Orso d’Argento nel 1981. Lo fa intrecciando alla narrazione contemporanea i ricordi di un episodio familiare vissuto durante la seconda guerra mondiale, quando la sua famiglia, partecipando a un programma umanitario della Croce Rossa, diede accoglienza temporanea a una ragazzina italiana, malnutrita e in difficoltà, costretta poi, contro la stessa volontà degli Imhoof, a tornare in Italia dove morì di malattia. “Giovanna è la prima ‘altra’ che compare nel film e nella mia vita – spiega il regista – una persona che parlava un’altra lingua, diversa e incomprensibile, che è arrivata nella mia famiglia mettendo in discussione il concetto che avevo all’epoca di io e di noi”.

“Anche gli altri si chiamano io”, sottolinea nel film il regista che usa quella esperienza di perdita personale come punto di accesso alla crisi dei rifugiati in corso, il più grande spostamento di massa di persone dalla seconda guerra mondiale, e ci conduce in un viaggio attraverso le navi da guerra italiane dell’operazione Mare Nostrum, i campi profughi nel Sud Italia, i ghetti accanto alle piantagioni di pomodori dove gli immigrati vivono aspettando che i caporali li vadano a prelevare, le udienze di asilo con le autorità svizzere che fanno di tutto per mandarli indietro. “Girare nel ghetto è stato difficile, ma lo è stato ancora di più farsi aprire le porte dalle istituzioni, hanno tutti paura di mostrarsi o troppo buoni o troppo inflessibili”. Ne emerge un quadro rigido e complesso che non riesce ad affrontare la tragedia umana. Secondo il Trattato di Dublino il rifugiato deve rimanere nel Paese europeo dove ha messo piede per la prima volta, “una mancanza di solidarietà, in cui decidiamo per le vite degli altri senza interpellarli” lo definisce il regista, che però ammette che trovare una soluzione che sia anche umana nella gestione di un flusso migratorio così ingente non è certo facile. “La cosa difficile è che nessuno è responsabile del problema nella sua complessità, così tutti si limitano a guardare i propri piedi e non l’orizzonte di questa crisi, causata da squilibri economici che trasformano i paesi ricchi del nord nell’Eldorado che molti dei meno fortunati cercano di raggiungere a tutti i costi”.

Un tema, quello della migrazione, che non può essere raccontato indipendentemente dal tema del denaro. Ognuno di noi porta nelle sue tasche un pezzo Africa e delle sue materie prime: materiali preziosi che occorrono per la produzione dei circuiti dei cellulari, oro, cobalto. Così come ognuno di noi mette a tavola prodotti che derivano dallo sfruttamento di persone che abbiamo davanti agli occhi ma che rimangono invisibili sia alla legge che alla gente comune: “Avevamo molto materiale a diposizione, ma ho ritenuto sufficiente far veder che quando mangiamo una pizza al pomodoro, magari quegli stessi pomodori sono stati raccolti da immigrati che lavorano nel Sud Italia in condizioni di semi-schiavitù, e noi in qualche modo sopportiamo e sosteniamo questa oppressione. Dobbiamo smettere di urlare e cercare di fare, come singoli, quello che riteniamo giusto. C’è tanta energia positiva in giro per il mondo e se fossimo sufficientemente numerosi sarebbe una forza. Si perde solo tempo se ci nasconde senza fare nulla, e si perdono solo forze urlando a chi urla”.

Carmen Diotaiuti
22 Febbraio 2018

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