Wajib, com’è difficile il dialogo in Palestina (anche tra padre e figlio)

Arriva in sala dal 19 aprile con Satine, Wajib Invito al matrimonio di Annemarie Jacir, un road movie urbano in cui un padre e un figlio su posizioni opposte si confrontano


Wajib vuol dire dovere. Ed è un dovere dei familiari più stretti della futura sposa consegnare a mano, personalmente, gli inviti al matrimonio. Almeno nella tradizione palestinese. Così Abu Shadi e Shadi, padre e figlio, lontani, geograficamente e per scelte di vita, si ritrovano per assolvere a questo compito bussando alle case di parenti, amici, conoscenti e, qualche volta, nemici.

Siamo a Nazareth, lì il padre ha deciso di restare facendo l’insegnante e mille compromessi con le autorità israeliane, da lì il figlio ha deciso di andarsene, per vivere in Italia, dove fa l’architetto e convive, senza essere sposato, con una connazionale espatriata anche lei, figlia di un membro dell’OLP.

Ecco il contesto di Wajib Invito al matrimonio, il film di Annemarie Jacir, in uscita il 19 aprile con Satine Film dopo aver fatto incetta di premi (Dubai, Mar del Plata, London Film Festival, Locarno, Amiens) e dopo aver rappresentato la Palestina agli Oscar. Un film dalla struttura semplice, quasi un road movie urbano con i due protagonisti che girano per le case di Nazareth, durante il periodo di Natale, tra discussioni, malintesi e silenzi, ma con una grande complessità nella lettura delle psicologie in cui fattori personali (Abu Shadi, tra l’altro, non ha mai digerito di essere stato lasciato dalla moglie che è emigrata negli Stati Uniti con un altro uomo) si intersecano con aspetti politici e sociali. In più, a impreziosire il racconto, la scelta di due attori che sono davvero padre e figlio: il grande Mohammad Bakri (La masseria delle allodole dei Taviani, Private di Saverio Costanzo per il quale ha vinto il Pardo d’oro dell’interpretazione a Locarno) e Saleh (doppiati da Andrea e Marco Mete, anche loro padre e figlio, nella versione italiana). “Saleh ha recitato in tutti i miei film – spiega Annemarie – mentre non avevo mai lavorato con suo padre Mohammed, che è una leggenda del cinema palestinese, sia come attore che come regista. Ho esitato a metterli insieme perché sapevo che sarebbe stata una scelta emotivamente molto forte: è difficile recitare con qualcuno della tua famiglia. E poi mentre Mohammed è un uomo fiero e carismatico, che non passa inosservato, Abu Shadi è un individuo ferito dalla vita, che neppure il figlio rispetta. Ma quando gliene ho parlato Mohammad ha raccolto subito la sfida, che considerava la più grande della sua carriera”.  

Il terzo film di Annemarie Jacir (dopo Salt of the Sea e e When I Saw You) è anche molto personale. “Non volevo veicolare un messaggio – spiega la regista – cerco di raccontare una storia nel modo più onesto e di porre delle domande sia a me stessa che al mio paese”. E tuttavia proprio la scelta di Nazareth come set è rivelatrice: “E’ la più grande città palestinese nella Palestina storica, oggi Israele, lì vivono un 40% di cristiani e un 60% musulmani. È una città dove c’è molta tensione e dove gli abitanti palestinesi hanno la cittadinanza israeliana, ma sono cittadini di seconda classe, non hanno gli stessi diritti. Le case sono tutte costruite una sull’altra perché i terreni sono stati confiscati, c’è una lotta continua per conquistare spazi e posti di lavoro, che è anche, per i palestinesi, una lotta per poter restare nella loro terra”. E racconta che quando hanno girato negli insediamenti, la gente ha chiamato la polizia per far allontanare la troupe solo perché avevano sentito parlare arabo. 

Interviene Saleh Bakri, classe 1977, interprete tra le altre cose di Salvo di Grassadonia e Piazza: “In Cisgiordania c’è un’occupazione militare, mentre in Israele c’è un’altra forma di occupazione che si basa sulla discriminazione”. E ancora Annemarie Jacir: “Come palestinese non puoi non sentire tutta questa pressione addosso. A Betlemme, il mio villaggio natale, ci sono soldati israeliani che sparano contro i bambini ogni venerdì, non puoi non vedere il muro che divide i due popoli. Oggi abito a Haifa dove la situazione è diversa, ma viviamo discriminazioni continue”.

Eppure ha scelto di restare nel suo paese, fondando anche la sua casa di produzione, la Philistine Films. “Come regista donna credo di avere maggiore libertà rispetto all’Occidente, perché in Palestina noi cineasti siamo tutti su un piano di parità, è una cinematografia molto piccola, non una grande industria. In Occidente le donne sono rimaste in parte ai margini, spinte a occuparsi solo di temi femminili e nei grandi festival, come Cannes e Venezia, ci sono pochissime registe, mentre al festival di Dubai le donne sono tantissime. Non voglio negare gli aspetti patriarcali della nostra società, ma non posso non notare queste differenze”.

Nel film c’è un lavoro sottile sul linguaggio e il non detto. “Vengo da una famiglia di donne molto forti, che parlano molto e che hanno il controllo della casa, così mio padre e mio fratello sono piuttosto silenziosi e ho osservato spesso la loro relazione, il loro modo di comunicare, in qualche modo ho voluto metterlo nel film, è stato un lungo lavoro di sottrazione”. E aggiunge: “Abu Shadi e Shadi sono due parti di me. Dopo aver girato Wajib ho capito che in tutti i miei film ci sono due personaggi contrapposti che mi rappresentano nella loro totalità. Magari sono più vicina politicamente a uno di loro, ma mi riconosco emotivamente all’altro. Non potrei dire chi ha torto o ragione. L’importante è che alla fine si siano riconciliati anche se non sappiamo cosa succederà”. 

La conclusione, amara ma venata di speranza, spetta a Saleh Bakri: “Dicono che quando cresci la rabbia si riduce, ma io sento il contrario, perché la mia rabbia cresce con me. E’ pesante ma anche salutare, sarebbe strano non essere arrabbiati. E poi insieme alla rabbia cresce anche l’amore”.

Cristiana Paternò
09 Aprile 2018

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