Ayka, tra sangue e neve, la maternità come problema sociale

Aika, film russo del Concorso diretto da Sergey Dvortsevoy, racconta di una maternità quasi rinunciata per via della dittatura della sopravvivenza minima


CANNES – La neve perenne e copiosa cade e copre la metropoli, pancia caotica e indifferente al dramma di Ayka, madre di venticinque anni che, immediatamente dopo il parto, si trova costretta a fuggire dall’ospedale, lasciando lì il proprio neonato. È la società, e la dittatura che essa impone, a costringerla alla scelta: in una situazione di già disastroso precariato mancare un giorno di lavoro può essere fatale per perderlo definitivamente, nonostante spesso e volentieri non ci sia nemmeno regolare retribuzione. 

Ayka, tra emorragia e minacce di mastite, sopporta i lancinanti dolori con le mani umide e impastate di penne di pollo che spenna in batteria, quando non cerca di arrabattarsi anche in un secondo impiego come inserviente alla macchinetta di un caffè: improvvisamente un’automobile rossa di grossa cilindrata, guidata da una donna, le si avvicina, la approccia, le lascia un bigliettino da visita dicendole di presentarsi a quell’indirizzo. È questo il punto in cui sembrerebbe che il film possa avere una svolta, e invece semplicemente si tratta di un’ennesima incerta proposta come donna delle pulizie.

Prima, in queste sequenze, e poi per tutto il film, perdura il dramma fisico e psicologico della protagonista, che sembra non riuscire mai a mettere a segno una decisione benefica per lei, perpetrando problematiche aggiuntive a quella già vessante che sta vivendo sul fisico e nell’anima. Però a questo punto un cenno d’umanità s’inserisce nella trama e nella vita di Ayka: in una clinica veterinaria, dove entra per andare in bagno, incontra una sconosciuta kirghiza come lei che empatizza subito e la accudisce con piccoli gesti, come una tazza di tè caldo, ma anche indirizzandola da un medico che la possa visitare. La donna – anche lei fa i mestieri alla clinica – è madre: il suo bambino dorme nascosto in un angoletto dello sgabuzzino delle pulizie. “Sono situazioni usuali in Asia Centrale – ha detto il regista Dvortsevoy alla conferenza stampa – facendo questo film, ho incontrato l’ignoranza delle persone, a Mosca non sono consapevoli di questa tragedia, la gente non sa. Il punto di partenza per il film si può immaginare come un albero che cresce… cresce… cresce man mano: con lo sceneggiatore si parlava di giorno in giorno, per decidere cosa sarebbe successo alla donna il giorno dopo, così anche il mio compito di regista è stato quello di far scoprire gradualmente la donna”.

Un’incertezza, questo metodo “in progress”, che non si è basato su una sceneggiatura di partenza, base tendenzialmente fragile per chi produce – Thanassis Karathanos e Anna Wydra, che in proposito ha detto di aver: “avuto fede nel senso di ‘filmaking’ del regista. Ci siamo fidati della direzione e dei temi forti portanti della trama”.

Una trama non scritta ma molto “reale, senza filtro – ha puntualizzato Dvortsevoy – Nel cinema cerco di trovare le peculiarità della vita e se riesco a riflettere su questo è il mio punto di partenza, non di certo uno scritto o una sceneggiatura. In questo discorso rientra il personaggio di Ayka, resiliente, a suo modo ‘caldo’, una sorta di Madonna sofferente e materna”. Personaggio femminile interpretato dall’attrice kazaka Samal Yeslyamova (già diretta dallo stesso regista in Tulpan: la ragazza che non c’era, del 2008), che del ruolo ha detto: “è stato complicato, anche le condizioni atmosferiche in cui si recitava lo erano, ma erano importanti per la regia del film”. Riflessione su cui ha fatto seguito il regista stesso dicendo come fosse: “difficile rendere questo ritratto di insofferenza: per questo tutto doveva essere davvero naturale, dalla neve agli animali”. 

Il film procede tra una minaccia a cui Ayka deve parere il colpo, deve molti soldi a dei malavitosi, e una sequenza – affatto casuale – in cui nello svolgere il proprio compito di pulizia del pavimento si ritrova a dover dare una mano al veterinario per una mamma di bassotto che ha appena partorito e a cui i cuccioli si sono appena attaccati ai capezzoli per essere allattati: Ayka sta per saldare il suo conto con lo strozzino andando a recuperare il proprio bebè abbandonato, da consegnargli come “pagamento” del debito ma naturalmente qualcosa accade che cambia la sua prospettiva di vita.

Una scelta – e una trama – che ruota intorno alla maternità e alla moralità ad essa connessa, che la protagonista ha definito: “Un discorso complesso. Io ho capito il mio personaggio e così tutte le donne in quella situazione”. Alla riflessione si è aggiunta anche la seconda voce femminile presente, quella della produttrice, che ha detto essere: “stato tutto un discorso sull’istinto naturale. Ho provato pena per il personaggio, non ho dato un giudizio: era una questione di sopravvivenza prima e di cuore poi”. 

Nicole Bianchi
18 Maggio 2018

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