Ceylan e la generazione perduta

Parthénos porta in sala dal 27 settembre il nuovo film di Nuri Bilge Ceylan, L'albero dei frutti selvatici, in concorso all’ultimo Festival di Cannes. Storia di un giovane appena laureato alla ricerca


CANNES – Una conferma del grande talento del regista turco Nuri Bilge Ceylan, Palma d’oro nel 2014 con Il regno d’inverno, arriva in chiusura di concorso, quando già molti giornalisti sono ripartiti dalla Croisette. Peccatto, perché The Wild Pear Tree ovvero L’albero dei frutti selvatici, in uscita con Parthénos il 4 ottobre, è uno dei film più solidi del concorso a conferma della densità di questo autore capace di raccontare un intero paese attraverso un storia se si vuole periferica. Siamo infatti nella provincia di Canakkale, sulla sponda asiatica dello stretto dei Dardanelli, dove un tempo sorgeva la mitologica Troia (ricordata con una scultura praticabile al suo interno del famoso cavallo). E’ qui che torna Sinan (Aydin Dogu Demirkol) giovane appena laureato con aspirazioni letterarie. Sta cercando qualcuno che finanzi la pubblicazione del suo primo libro, un ibrido tra saggio e romanzo, ma si scontra con il provincialismo dei locali, che sarebbero disposti a spendere qualche soldo per una guida turistica ma non certo per un’opera più ambiziosa. Tra i vari incontri con i suoi coetanei, tutti ben poco realizzati, c’è quello con Hatice (Hazar Erguclu), ragazza contesa al liceo che sta per finire in un matrimonio combinato e non proseguirà gli studi. Ma soprattutto il confronto è col padre Idris (Murat Cemcir), professore di scuola media che ha il vizio del gioco ed è perennemente alla ricerca di qualche soldo da puntare sui cavalli, arrivando a derubare il figlio.  

Il film, che dura tre ore e 8 minuti, si sviluppa attraverso lunghi dialoghi – con uno scrittore locale di successo, con due imam, con la madre – e momenti sospesi resi incredibilmente eloquenti dalla bellezza dei luoghi fotografati con maestria dal collaboratore fisso di Ceylan, il dop Gokhan Tiraky, mentre la musica di Bach, usata con estrema moderazione, è l’unico commento. Alla sceneggiatura ha collaborato come sempre la moglie del regista, Ebru Ceylan.

“Non volevo che questo film risultasse troppo letterario o filosofico – ha spiegato il 59enne regista – quindi bisognava rendere accettabile la parte teorica. Mi sono basato su una storia reale, quella di un uomo che avevo incontrato a una festa di famiglia, un uomo fuori dal comune, in parte isolato all’interno della sua comunità. Ho chiesto al figlio, Akin Aksu, che poi nel film ha il ruolo dell’imam, di raccontarmi per iscritto questa storia, lui l’ha fatto, mi ha mandato un racconto di 80 pagine, e quel punto ci siamo resi conto che il personaggio principale non era il padre ma il figlio, con i suoi conflitti. Parlare di lui mi permetteva di fare un film che volevo fare da tanto tempo, un film sui giovani turchi, raccontando la storia di qualcuno che cerca di diventare indipendente, che cerca di uscire dal mondo rurale in cui è nato e da cui si sente assediato”.

Non mancano riferimenti alla politica contemporanea, ad esempio agli scontri di piazza (Sinan ha un amico poliziotto), e la critica sottesa a una società dove molti laureati sono costretti ad accettare lavori al di sotto della propria formazione oppure una cattedra d’insegnamento in regioni remote del paese. Ma su questi temi, in conferenza stampa, Ceylan ha preferito glissare. 

Cristiana Paternò
19 Maggio 2018

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