Quattro registi per Martin Scorsese

Il regista americano al Festival del Cinema Ritrovato intervistato da quattro nomi importanti del giovane cinema italiano: Matteo Garrone, Valeria Golino, Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano


BOLOGNA –. Nessuno meglio di Martin Scorsese poteva essere protagonista del Festival del Cinema Ritrovato. Da un lato perché fa parte di quella generazione di registi che si sono formati con la grande storia del cinema, in particolare con quello italiano – come prova il suo documentario Italianamerican, nel quale dimostra una profonda conoscenza del cinema d’autore e popolare –  e dall’altro perché Scorsese è sempre stato molto sensibile al tema della conservazione dei film, attività che lo vede impegnato da molti anni. Grazie alla sua Film Foundation, nata agli inizi degli anni ’90, e alla World Cinema Foundation, fondata nel 2007 per il restauro e la salvaguardia delle pellicole (soprattutto per quelle provenienti da Paesi non attrezzati alla conservazione del proprio patrimonio cinematografico) ha infatti salvato tantissimi capolavori del cinema, film che probabilmente oggi non saremmo più in grado di vedere.

Il suo incontro al Festival del Cinema Ritrovato è stato dunque all’altezza delle attese.Interloquivano con lui nomi importanti del giovane cinema italiano che gli si rivolgevano con deferenza e curiosità: Matteo Garrone, Valeria Golino, Alice Rohrwacher e Jonas Carpignano. I temi affrontati sono stati diversi ma Scorsese ha cominciato proprio da quello che, come abbiamo detto, gli sta a cuore da anni: il restauro, la salvaguardia del cinema e della sua memoria. Perché per lui “nulla può essere messo a confronto con l’esperienza della sala. Andare a vedere un film è un atto collettivo, unico, che va trasmesso, insegnato alle nuove generazioni, spesso incapaci di capire la differenza fra piccolo e grande schermo. Sostenere il cinema significa riuscire a riportare in sala le famiglie, i giovani, i vecchi, i bambini”.

“Quando ero piccolo – racconta – non c’era la televisione, non c’era nulla se non il cinema e ci andavo tutte le settimane. Adesso ci sono molte più alternative e la tecnologia anche al cinema è andata avanti, questo però non vuol dire che vecchio e nuovo non possano convivere… in fondo che direbbe oggi Shakespeare di come si rappresenta Amleto a teatro? Ai suoi tempi il famoso monologo ‘essere o non essere’ veniva recitato in velocità da un attore che correva tra il pubblico, oggi l’attore sta sul palco illuminato da una luce studiata nei minimi dettagli a declamare quegli stessi versi…Non è dunque importante la formula con cui tradizione e modernità stanno insieme, ma riuscire a capire e a spiegare, soprattutto ai più giovani, che i film non sono ‘contenuti’ ma arte”. E parlando delle prime volte davanti al grande schermo, “immerso nella grande sala buia”, Scorsese ricorda: “Al cinema ci andavo spesso perché da piccolo soffrivo d’asma e il dottore aveva raccomandato ai miei genitori di non farmi fare nessun tipo di sport. Il cinema era quindi la mia unica evasione e anche l’unica maniera per potermi avvicinare agli animali, soprattutto ai cani, che tanto amavo, ma che appunto per via della mia malattia non potevo assolutamente toccare. Guardavo ogni genere di film, ma amavo in particolar modo i western. Poi a New York alla fine degli anni ’40 sono arrivati i film neorealisti. Davanti a Sciuscià, Paisà, Roma Città aperta sono rimasto senza fiato, perché se nei western imparavo a conoscere l’America, con questi primi film italiani riconoscevo la realtà in cui ero cresciuto e in parte vivevo. Non che nei film americani non ci fosse la realtà, ma era sempre e comunque una realtà modificata affinché diventasse entertainment. Nei film italiani invece mi sembrava di ritrovarmi seduto nel salotto di casa con la mia famiglia”.

Ma cosa è rimasto di quegli anni nello Scorsese regista? “Certamente un mondo a cui ispirarmi – spiega il cineasta – ma di cui essere anche in grado di perdere le tracce nel momento in cui sono davanti al mio film, perché ispirarsi è una cosa, copiare un’altra… nei miei film ci sono tanti riferimenti ad altre opere, non solo cinematografiche, ma sono appunto solo riferimenti. Fare il regista è un lavoro in cui si viaggia in ‘solitaria’, anche se intorno ci sono tante persone. La parte più difficile è affrontare l’idea che non sai mai come sarà davvero percepito il tuo lavoro. Può essere che tutti ti daranno contro, ed è per questo che devi seguire solo te stesso, la fiamma che ti si è accesa dentro nel momento in cui ti sei messo a lavorare sulla tua idea; perché se alla fine del film quello che hai sentito viene percepito anche solo da due persone hai comunque fatto la scelta giusta!”.

La cosa più difficile di un film invece per Scorsese è ancora oggi l’illuminazione “perché – spiega – sono cresciuto senza. Da ragazzo conoscevo solo la luce del giorno e quella della notte, quando accendevo l’unica lampadina che c’era in casa. E poi c’era quella drammatica, angosciante, della cattedrale di San Patrick a New York, dove ho passato tantissimo tempo. Quella luce è entrata in molte delle mie opere. Nella mia carriera ho lavorato con grandi direttori della fotografia, che hanno cercato di farmi capire come si gestisce la luce, ma nonostante questo la luce per me è sempre stata un problema. Amo molto di più occuparmi del montaggio, chiudermi per ore nella stanza con il montatore e ricompattare il film, dargli la vera vita. Un altro momento che mi piace moltissimo e che vivo con grande slancio è quello di fine scrittura, quando finita la sceneggiatura me ne vado in albergo per dieci giorni e comincio a a disegnare, a mettere insieme le idee per girare. Incontro il direttore della fotografia, l’assistente alla regia e comincio a pensare alle sensazioni delle immagini, a come portarle sullo schermo. Poi parallelamente ricerco altri film, brani musicali che possono avere a che fare con il lavoro e li mostro ai miei collaboratori. Per loro forse è il passaggio più difficile, perché non sempre è semplice seguirmi, ma per me è davvero la fase più creativa!”.

L’ultima domanda riguarda gli attori, che Scorsese ha imparato ad amare esclusivamente al cinema: “Perché il teatro era troppo caro e la mia famiglia non mi portava. Ero un ragazzino quando ho cominciato a vedere i film di Elia Kazan, da cui ho imparato moltissimo proprio sulla recitazione. La vera rivoluzione però è stata John Cassavetes con il suo Shadows, un film che mi ha spalancato le porte del cinema. La maniera in cui gli attori si esprimevano, anche fisicamente, ha cambiato il mio modo di vedere l’attorialità. Cassavetes è stato un riferimento fondamentale. È stato merito suo se ho girato Mean Streets e se sono entrato a far parte di quel mondo che avevo imparato ad amare nelle sue pellicole. Con gli attori comunque ho sempre avuto un bel rapporto, anche perché ho avuto il privilegio di lavorare da subito con professionisti che parlavano il mio stesso linguaggio, come Harvey Keitel e Robert De Niro. Con loro non c’è mai stato bisogno di spiegare nulla, siamo sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda, e questo grazie alla profonda amicizia e fiducia che ci lega”.

A conclusione della conversazione Scorsese ha poi raggiunto Piazza Maggiore per presentare la proiezione di Enamorada di Emilio Ferdandez, uno dei film restaurati grazie al lavoro della sua Film Foundation.

Caterina Taricano
25 Giugno 2018

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