‘Menocchio’, radiografia di una coscienza ribelle

Alberto Fasulo,​ regista friulano premiato con il Marc'Aurelio d'oro a Roma 2013 per TIR, porta al cinema dall'8 novembre il suo nuovo lavoro, in concorso a Locarno, premiato ad Annecy


“In fondo tutta la partita della vicenda di Menocchio si gioca all’interno di un triangolo tra potere del sistema, individuo e comunità”. Così Alberto Fasulo, il 42enne regista friulano, premiato con il Marc’Aurelio d’oro a Roma 2013 per TIR, a proposito del suo nuovo lavoro, Menocchio, presentato in concorso a Locarno, premiato ad Annecy col Grand Prix du Jury e ora in sala dall’8 novembre con Nefertiti. Un film intenso, che unisce alla profonda riflessione sulla ribellione all’autorità, una ricerca che parte dai volti stessi degli interpreti, tutti non professionisti, per arrivare a qualcosa che potremmo definire l’anima, ma in senso non metafisico anzi pienamente terreno. Il regista ha attinto a una vicenda storica piuttosto nota: un mugnaio di Montereale Valcellina, Domenico Scandella detto Menocchio, venne accusato di eresia per le sue idee, incarcerato e sottoposto a un processo dall’Inquisizione che in quegli anni, siamo nella seconda metà del Cinquecento, cercava di recuperare terreno rispetto alla diffusione della riforma protestante (le 95 tesi di Lutero sono del 1517).

La ricerca di Fasulo, affiancato da consulenti storici tra cui Andrea Del Col che ha curato la pubblicazione dei verbali dei processi (1583-1599), verte su una precisa resa linguistica, che contrappone sovente il dialetto friulano parlato dai contadini all’italiano e al latino delle gerarchie ecclesiastiche, intente soprattutto a difendere il proprio potere secolare. Quali sono le idee pericolose professate da questo brav’uomo, autodidatta e dalla mente “forte”? Che la Madonna non ha concepito senza peccato, che Gesù era uomo, che il papa e i vescovi sono fallibili, che il demonio si annida nel denaro, che la Chiesa dovrebbe essere povera, che la religione dei preti non salverà il mondo, che il paradiso è qui, nell’aria e nella luce. Quella luce che gli viene sottratta con protervia: gran parte del film si svolge proprio nella prigione sotterranea dove l’uomo è segregato “a spese sue e della sua famiglia e col divieto di parlare, leggere, scrivere, tossire, sputare, fare alcun rumore”.

Vengono in mente i grandi esempi di cinema eretico e anticlericale, dal Giuliano Bruno di Giuliano Montaldo (1973) a Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti (2000) e naturalmente la Giovanna d’Arco al rogo di Rossellini (1954), ma Fasulo cerca una sua strada autonoma, staccandosi anche dal celebre testo di Carlo Ginzburg Il formaggio e i vermi, saggio dedicato proprio a questa vicenda ereticale. “Il mio è il racconto di come Menocchio sia giunto a voler rinnegarsi pubblicamente. La grande sfida è stata riuscire a dare corpo alla coscienza di questo mugnaio, a questo campo di battaglia in teoria astratto”.

Un film sulla coscienza e la scelta, dunque, ma con una forte componente figurativa e sensoriale. “L’idea filmica è germinata da quel primissimo piano di Menocchio che ho sognato diverse volte. Le parole possono essere estorte, equivocabili e anche ovviamente sincere, ma è nel volto, nell’espressione, che si coglie il reale sentimento della persona che sta parlando”. Ed ecco allora la faccia di Marcello Martini, già guardiano delle dighe del disastro del Vajont e vicesindaco di Claut, piccolo comune del Friuli, che si trova proprio nella valle d’origine del mugnaio, con la sua maschera inespugnabile. Martini ora si commuove parlando del suo personaggio: “Quando Alberto Fasulo mi ha raccontato la storia del film ho trovato subito affinità con la mia gente, ma ho pensato poi che è come se lui mi avesse dato una mazza per buttare giù una montagna. Non mi sono risparmiato in nulla, attingendo direttamente nella mia vita”. Per Fasulo l’attualità del film è nella “parabola di un uomo che cerca disperatamente di lottare contro il potere e si ritrova invece a fare i conti anche con la paura, il tradimento e la complicità di amici che lo vorrebbero zittire”. E aggiunge: “Non desidero dare una lettura univoca del film, ma voglio che apra un dibattito sull’etica dell’individuo in quanto parte di una comunità di fronte al potere”. 

L’andamento lento e ancorato ai gesti e ai riti del processo – gli interrogatori dei vicini di casa, il figlio costretto da rinnegare il padre – viene interrotto da una scena onirica, quasi una visione del sabba con uomini-animali che si fanno beffe del protagonista. “Il sogno carnevalesco, che in sceneggiatura non era un sogno, è stato importante per raccontare che Menocchio era cosciente che abiurando le idee che aveva sempre difeso e sostenuto, avrebbe distrutto profondamente la sua credibilità, la sua vita, la sua integrità morale. Artefice del suo destino, se ne assume la responsabilità senza essere eroe né vittima”.

Infine sullo splendido lavoro pittorico, Fasulo rivela di avere frequentato molto i musei della zona per vedere dal vivo le opere dei pittori dell’epoca, per avvicinarsi alla dimensione quotidiana, anche grazie alla scelta di non usare luci artificiali, di girare come si è detto con non attori, di non far leggere la sceneggiatura né dunque di impostare le battute, di parlare con ogni persona per farne affiorare il vissuto e la personalità. “Tutti gli attori li ho trovati nelle valli dove Menocchio è vissuto, è stato un lavoro di due anni in cui ho cercato di capire chi era ciascuno di loro, che vita aveva: un lavoro quasi da antropologo”. 

Cristiana Paternò
06 Novembre 2018

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