De Angelis, la bellezza ferita delle anime perse

Con ​Il vizio della speranza, in selezione ufficiale alla Festa di Roma, Edoardo De Angelis torna a Castel Volturno per tracciare ancora una volta un ritratto intenso di un mondo ai margini


Cammina in un purgatorio di anime perse Maria, cappuccio sulla testa per isolarsi dai mostri, passo risoluto, unico compagno un pitbull bianco che si trascina dietro. “A me non mi uccide nessuno”, dice mentre traghetta all’inferno donne incinte e disperate. Madri che vendono figli a madri che comprano, donne e uomini in fuga o in vendita, mostri o poveri diavoli senza speranza. Sono questi i protagonisti del nuovo film del talentuoso regista napoletano Edoardo De Angelis, Il vizio della speranza, che a due anni da Indivisibili torna a Castel Volturno per tracciare ancora una volta un ritratto intenso di un mondo al limite, rifugio di peccati e fallimenti, di esistenze invischiate nell’orrido eppure drammaticamente capaci di liricità. Dove la legge non arriva ma le regole non possono essere infrante: se resti incinta devi cedere il bambino, per vivere devi prostituirti, se sbagli o provi a fuggire sei morto, ti devi togliere il vizio di sperare. 

Presentato in Selezione ufficiale alla Festa di Roma e interpretato dalla moglie del regista Pina Turco, il film racconta la storia di una giovane donna dal fisico e dallo spirito martoriato, che per mantenere madre e sorella sfrutta il racket della maternità surrogata, trasportando sul fiume Volturno prostitute a fine gravidanza, verso una baracca dove partoriranno senza alcuna assistenza medica, per poi cedere immediatamente il bambino a donne che “possono permetterselo”. Circondata da anime perse, come la madre malata Alba, interpretata da Cristina Donadio che ne sottolinea l’aspetto inconsapevolmente orrido: “E’ un personaggio tremendo perché è inconsapevole dell’orrore che mette nel rapporto con sua figlia. Affetto da una sorta di catatonia esistenziale, si fa scivolare la vita addosso. Ma anche nel suo orrore c’è un monito e un incantamento, come in ogni personaggio di questo microcosmo”. Ma anche anime nere, come quella della madama ingioiellata per cui Maria lavora (Marina Confalone), un personaggio che vive sulle disgrazie altrui, che ha bisogno dell’eroina, “il cappotto di velluto”, che la aiuta a tirarsi fuori dallo squallore del mondo desolato in cui vive. 

Qualcosa cambia, però, quando una delle ragazze vuole tenere il bambino e scappa, proprio mentre una nuova vita, contro ogni previsione, si fa strada anche nel corpo di Maria, che decide a sua volta di resistere e di sperare, in attesa del premio che è il miracolo di un mondo che nasce. “Il desiderio è un sentimento semplice che genera una faccenda complessa e viziosa come la speranza” dice il regista che racconta di aver immaginato un inverno dove tutto sembra morto, dove si accende il fuoco per scaldarsi, aspettando che l’inverno passi e la natura vinca. “In questo film vince chi resiste all’inverno, chi ha la pazienza di aspettare che qualcosa cambi, una variazione che aiuta a seguire l’imperativo etico che deriva dalla scoperta di avere una possibilità, e cioè agire”. “La speranza è il seme di ogni rivoluzione, la speranza diventa fede che diventa cambiamento e permette di scrivere il destino di propria mano”, fa eco Pina Turco.

Il vizio della speranza è un film intimista, che si avvicina ai corpi dei personaggi per mostrarne cicatrici, gesti, occhi in continuo movimento. Perché proprio in quel moto sta la capacità di guardare al futuro, di scorrere sul fiume che trasporta, che è acqua in movimento, che lava e purifica, che ospita il corpo martoriato ma anche il corpo che dà vita.  Una vita che si ostina a lottare contro la morte, per sovvertire attraverso la nascita, lo strumento più arcaico, l’ordine della disperazione. “La capacità lirica di questo film è sollevare le esistenze dal materiale concreto che le assedia”, sottolinea lo sceneggiatore Umberto Contarello, che continua: “L’andamento del racconto somiglia a una partitura parabolica, e come tutte le parabole ha un cuore antichissimo, quasi arcaico, che gli permette di essere universale. Il film riporta al centro il fatto che fare un bambino non dipende dalle condizioni ritenute adeguate a farlo. Oggi c’è una volgarissima banalizzazione secondo la quale un figlio nasce quando ha la culla pronta. Questo film dice anche che è il figlio che costruisce la culla”.  

Carmen Diotaiuti
19 Ottobre 2018

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