Lee Anne Schmitt, viaggio nell’America post-industriale

Lee Anne Schmitt, 48 anni, nata a Chicago, cresciuta artisticamente in California, è tra le protagoniste di Pesaro 55 con una personale che porta per la prima volta in Italia il suo lavoro


PESAROLee Anne Schmitt, 48 anni, nata a Chicago, cresciuta artisticamente alla CalArts (California Institute of Fine Arts) è tra le protagoniste di Pesaro 55 con una personale che porta per la prima volta in Italia il suo lavoro di sperimentatrice rigorosamente in 16 mm. La sezione, curata da Rinaldo Censi, ha proposto i suoi film-saggio, riflessioni sul paesaggio americano, decostruzione dei miti della frontiera e del West – i nativi, la caccia ai bisonti – e forte critica al capitalismo e alla società postindustriale. “Per la prima volta ho iniziato a capire l’importanza del paesaggio osservando la zona industriale abbandonata di Chicago, con le sue fabbriche dismesse e gli edifici decadenti”.

Dedita dapprima alla danza con un collettivo di donne, da sempre appassionata di fotografia e fedele alla pellicola, che all’inizio del suo percorso era una necessità e oggi, in era digitale, una scelta, anche grazie a una macchina fotografica regalatale da un amico, la cineasta spiega che “il formato quadrato del 16 mm permette un lavoro di osservazione accurato sul tipo di rapporto esistente tra lo sviluppo del paesaggio e le persone che ne sono influenzate, prestandosi a raccontare tematiche storiche e sociali degli Stati Uniti”.

Tra le opere presentate: The Wash (2005), California Company Town (2008) e Company Town Remix (2012) oltre a Bower’s Cave (2010) e The Last Buffalo Hunt (2011). L’autrice ha spiegato il suo approccio indipendente a oltranza: “Faccio tutto da sola anche per motivi economici, dalle riprese al montaggio. Negli anni ’90 c’erano finanziamenti pubblici per l’arte che poi sono stati prosciugati fino a scomparire del tutto, ma io riesco a gestire in totale autonomia il mio lavoro che dura molti anni per ciascun film, tra riprese e montaggio”.

I temi toccati sono tutti legati alla storia degli Stati Uniti ma anche a esperienze autobiografiche. “I miei film sono tutti personali – conferma Lee Anne Schmitt – per esempio l’interesse per le città industriali nasce da mio padre, che si spostava per lavoro e da bambina mi ha portato a vivere in varie città industriali. Poi da adulta ho esplorato 18 agglomerati urbani legati a diverse attività produttive, andando in giro con l’auto, filmando e annotando i nomi dei posti. Nemmeno immaginavo la dimensione politica che avrebbero assunto quelle immagini”.

Inevitabile l’incontro-scontro con il razzismo. Il suo ultimo film, Purge this Land (2017) ripercorre la storia di John Brown (1800-1859), l’abolizionista americano fautore dell’insurrezione armata contro la schiavitù. “Il film – spiega la regista – è una riflessione sull’uso della violenza in un contesto schiavista. Dopo The Last Buffalo Hunt, sapevo che dovevo affrontare il tema della razza, era un imperativo. Dal 2002 ho cominciato a leggere libri su John Brown e nel 2016 è diventato evidente che la dinamica dello scontro razziale negli Usa stava di nuovo peggiorando, anche se non parlerei di recrudescenza perché il razzismo è una costante. Così ho iniziato le riprese e a metà del film ho scoperto di essere incinta. Ho continuato dopo la nascita di mio figlio, che è nero come suo padre (il musicista Jeff Parker, ndr). Gli antenati di Jeff vennero schiavizzati nelle piantagioni della Virginia. Quindi la mia voice over nel film è molto personale, so che non potrò mai capire la vita che fanno loro e anche la mia figliastra. Mio figlio, a differenza di me, vivrà come un nero in America”. 

Cristiana Paternò
20 Giugno 2019

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