Majid Majidi: “Siamo tutti responsabili dei bambini di strada”

I figli del sole sono i ragazzi di strada di Teheran, bambini e bambine senza famiglia o con situazioni familiari devastate, costretti a lavori precari e clandestini, spesso sfruttati da criminali


VENEZIA – I figli del sole sono i ragazzi di strada di Teheran, bambini e bambine senza famiglia o con situazioni familiari devastate, costretti a lavori precari e clandestini, spesso sfruttati da bande di criminali. Sono al centro di Khōrshīd di Majid Majidi, film iraniano in concorso. Il regista, sceneggiatore e produttore, classe 1959, ha una lunga esperienza di storie di infanzia. Nel 1999 ha diretto I ragazzi del paradiso, il primo film persiano candidato all’Oscar.

Ora ha impaginato una vicenda che unisce la denuncia al genere avventuroso con un bel ritmo e dei piccoli protagonisti di indubbio valore. Siamo nei sobborghi di Teheran dove il 12enne Alì, insieme ai suoi inseparabili amici, si guadagna da vivere rubando copertoni per auto di lusso, mentre la coetanea Zahra vende fazzoletti e altri oggettini in metropolitana. Quando Ali viene incaricato da un losco figuro di scavare un tunnel nei sotterranei della scuola, gli scugnizzi si trovano per la prima volta a frequentare una classe – dapprima per coprire il lavoro di scavo, poi sempre più convinti – mutando la loro prospettiva.

Nel mondo, si legge in un cartello che apre il film, sono 152 milioni i bambini costretti a lavorare. “Una amara realtà – spiega Majidi – con numeri anche peggiori di questi. In India per esempio la situazione dei minori è catastrofica. A livello economico e politico i deboli diventano sempre più tali, le famiglie sono sotto pressione, non hanno niente da mettere in tavola e il lavoro minorile è inevitabile. La guerra è un altro fattore di stress, in Afghanistan o Siria non c’è un ambiente adatto per una sana crescita e le potenzialità dei ragazzi sono azzerate”. E l’attore Shavad Ezzati, che nel film ha il ruolo del vicepreside, aggiunge: “Insegno teatro ai bambini e conosco bene la situazione. Non possiamo sperare in un cambiamento radicale del destino di questi ragazzi, ma possiamo dar loro gli strumenti per trovare la propria strada”.

Rouhollah Zamani, che ha il ruolo di Alì, non è potuto partire dall’Iran perché positivo al coronavirus, ma a Venezia c’è Shamila Shirzad che dà vita a un intenso ritratto femminile quasi senza parole (la bimba viene arrestata dalla polizia e la vediamo rasata a zero dopo il carcere): ci racconta che lavora da quando aveva 5 anni e che oggi frequenta la scuola di mattina grazie ai progetti di volontariato. “Con le scuole sperimentali come quella che si vede nel film – spiega Majidi – possiamo aiutarli a leggere e scrivere e dare loro un’identità perché molti non sanno neppure quando sono nati e non hanno documenti”. Quanto alle responsabilità di questa situazione, la riflessione del regista è articolata. “L’Iran subisce l’embargo da 40 anni, il blocco non si è allentato neppure durante l’emergenza sanitaria e così non abbiamo medicinali. Ma anche Siria, Afghanistan, Pakistan, Turchia – per diversi motivi – hanno alte percentuali di lavoro minorile. Tutta l’area risente di una profonda crisi e chi ne soffre di più sono loro. Quindi la mia denuncia non riguarda il governo, ma vuole richiamare tutti e ciascuno di noi alla responsabilità e alla presa di coscienza, siamo tutti la famiglia di questi bambini”.  

Cristiana Paternò
06 Settembre 2020

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