‘Benedetta’, l’erotismo di una badessa seicentesca

‘Benedetta', badessa seicentesca, erotica amante di una consorella


CANNES – Era un ammiccante scavalcamento femminile delle cosce, è oggi la famelica e insistente messa in scena del seno: Paul Verhoeven, 83 anni, il padre di Basic Instinct, presenta in Concorso la storia di Benedetta (Virginie Efira), bambina dalla precoce vocazione religiosa, poi suora e infine badessa di un convento di Pescia, Toscana. Le riprese si sono svolte a Montepulciano, Bevagna e nella Val d’Orcia, nelle Abbazie di Silvacane e di Le Thoronet in Francia.

È il ‘600 della peste e della Controriforma, e Benedetta è lesbica, scoperta che si palesa dopo la maggiore età, nell’incontro con una popolana accolta nel convento, Bartolomea (Daphné Patakia), dapprima profilo provocatorio e ambiguo, essa stessa in odore di demoniaco, mentre invece l’estremo misticismo – o la perfida manipolazione? – si rivela appartenere a Benedetta. 

Il film è tratto dal saggio di  Judith C. Brown, Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento (1986), considerato il primo documento sul lesbismo della Storia occidentale moderna. “Quando l’ho letto sono rimasto sorpreso che fosse una storia del Seicento: l’atmosfera del periodo non permetteva di dire che esistesse il lesbismo. Mi interessava fare un film per mostrare l’eternità del soggetto. È un film complesso per i molteplici livelli, dalla Fede alla politica: mi ha guidato la verità, il voler mettere in scena quello che era successo, il capire cosa accadesse tra le due donne”, spiega il regista olandese. 

Una storia vera, dunque, quella di Benedetta Carlini, che Paul Verhoven mette in scena senza penetrare le vie della psiche, come probabilmente sarebbe stato più seducente ed erotico, ma penetrando letteralmente la suora stessa, atto da parte della novizia, con una statuetta della Madonna scolpita in forma fallica, il tutto corredato dall’onnipresenza del seno femminile, mostrato fino all’esasperazione, tanto da perdere qualsiasi animo materno o erotico: dapprima è il seno scoperto di una statua mariana che cade addosso alla piccola Benedetta in preghiera, cui la bambina s’attacca al capezzolo come un neonato a quello della mamma, poi è il seno – sempre di Benedetta – titillato nella penombra notturna da Bartolomea, poi ancora quello esuberante di una dama in dolce attesa che senza pudore lo mostra dinnanzi ad un alto prelato per palesare di avere il latte nelle tette, e così via tette a profusione. 

“Paul mette in scena in maniera incredibile la nudità. Il film è molto profondo, fa porre domande, possiede un livello metafisico, al contempo è molto reale. Benedetta è il ritratto dell’ambiguità, mi ha fatto porre interrogativi sul possesso ed è stato interessante lavorare sulla bugia, sulla patologia”, riflette Virginie Efira. 

“Io ho detto subito sì alla proposta del ruolo, significava farlo con Paul Verhoeven!”, spiega Daphné Patakia. “Ogni cosa è stata chiara sin da subito in questa storia e in ogni cosa era incredibile”. 

“Il femminismo è molto forte nell’approccio di Paul, che è un osservatore degli eventi e un visionario”, aggiunge Clotilde Courau, nel ruolo della mamma di Benedetta. 

Il film non disturba davvero perché si avvicina a più riprese al ridicolo, come nelle sequenze di (supposte) alcune visioni di Benedetta, tra cui quella in cui alcuni serpenti le si attorcigliano sul corpo, chiara simbologia del peccato in agguato, cui la suora viene liberata da uno splatterissimo gioco di spada di un uomo in groppa ad un cavallo bianco. Verhoven non si fa mancare nemmeno un suicidio spettacolare, quello della lucida ma non creduta Suor Cristina (Louise Chevillotte), che denunciato apertamente lo stile di vita sessualmente improprio al contesto, viene tacciata e così portata ad un estremo volo dal campanile del convento: “Le donne sono dipinte in modo complesso, sofisticato. Cristina era importante fosse determinata e coerente”, commenta l’attrice. 

Le simbologie sono troppe, una stratificazione che non permette nessun approfondimento, una scelta narrativa e visiva che è un’opportunità persa rispetto ad una storia che avrebbe potuto restituire un magnifico spaccato personale e sociale della condizione di Benedetta al tempo. Un tempo anche di peste, altro strato che Verhoven somma al tutto, altra metafora appoggiata, dato storico sì, che si limita a se stesso. 

Punta di diamante del film, severa e discreta, silenziosa e volitiva, dolcissima e bruciante è Charlotte Rampling, suor Felicita, la prima badessa dal convento, che sin dal principio accoglie con perplessità le manifestazioni stigmatiche e visionarie di Benedetta, fino a cercare di scardinarne la presunta diabolica astuzia chiamando a Pescia il Nunzio (Olivier Rabourdin) da Firenze – “un animale politico, molto professionale nel suo ruolo”, lo definisce l’attore stesso -, mettendo in atto una serie di sequenze che però, tra le altre, rinnovano il ridicolo, come nella scena della “risurrezione”, fino poi all’apice del drammatico assoluto, nell’eco di un Inferno fatto terreno. 

“Il film è misterioso, enigmatico, la visione divide. È destabilizzante, possiede anche l’ironia propria di tutta la filmografia di Paul”, commenta il produttore, Saïd Ben Saïd

Nicole Bianchi
10 Luglio 2021

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