Mario Capecchi, un Premio Nobel al Bif&st

Mario Capecchi, Premio Nobel per la Medicina 2007 e Carlo Doglioni, presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sono stati protagonisti al Teatro Petruzzelli di Bari


BARI Mario Capecchi, Premio Nobel per la Medicina 2007 e Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sono stati protagonisti al Teatro Petruzzelli di una seguitissima conversazione sui temi della scienza, dell’importanza della ricerca e del rapporto tra scienza, arte, politica e società.

La storia della sua vita, raccontata in Hill of Vision di Roberto Faenza, ha emozionato e commosso il pubblico del festival. E Mario Capecchi è tornato sul palco per parlare non di se stesso e della sua straordinaria parabola umana, ma dell’importanza della scienza e della ricerca. La conversazione tra i due studiosi ha toccato tanti temi, con riflessioni espresse con linguaggio semplice, mai accademico. A partire dall’importanza dell’arte e del suo rapporto con la scienza. “È assolutamente necessario” – ha esordito il Premio Nobel – “incoraggiare e supportare tutte le arti, poiché ci rendono persone migliori e ci danno qualcosa di più. Dopodiché scienza ed arte sono molto più connesse di quanto non possa sembrare e possono dialogare in varie forme. Pensiamo a Leonardo da Vinci, l’antesignano della rivoluzione moderna: qualsiasi invenzione che vi viene in mente origina da lui e dalla sua arte”.

“L’arte è la base di tutto” – ha ammesso il professor Doglioni – Ed è per questo che dal concetto di STEM in ambito educativo – Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica – si è passati a quello di STEAM, aggiungendovi cioè l’arte. Scienza ed arte lavorano insieme, sosteneva Albert Einstein”.

Anche il tema della guerra, nella sua drammatica attualità, è stato ampiamente affrontato nella conversazione. “Il nostro pianeta è di per sé fragile – ha osservato il professor Capecchi – Noi pensiamo che esisterà sempre ma non è così. Non possiamo ignorare quello che sta accadendo e che la guerra potrebbe distruggere la terra e la vita. È necessario fermarla e sostituirla con la scienza, con l’arte e con il cuore”.

“Non vi è dubbio che la ricerca in ambito militare – spiega Doglioni – sia alla base di molti progressi scientifici che hanno migliorato la nostra vita. Pensiamo al GPS, il sistema di posizionamento globale: esso è stato creato e realizzato dal Dipartimento della Difesa statunitense. Ma benché gli studi militari abbiano avuto un grande impatto sulla ricerca bisogna dire con forza che la guerra va abbandonata!”.

I cambiamenti climatici, gli effetti della crescita demografica e della sovrappopolazione, il rapporto tra scienza e politica sono stati altri temi dibattuti. Ma c’è stato anche un pensiero del premio Nobel sul ruolo delle donne: “Ne vedo tante oggi in platea e questo mi infonde speranza. Io credo che gli uomini abbiano fatto qualcosa, certo, ma nessuno più delle donne sa quanto la vita sia preziosa. Abbiamo bisogno più che mai di loro, della loro voce, della loro energia, del loro amore per fare intraprendere, anche alla scienza, nuove direzioni”.

Il genetista italiano, che quindici anni fa ha ricevuto il Premio Nobel per la Medicina per le sue ricerche sulle cellule staminali embrionali e il cosiddetto ʺgene targetingʺ, continua a dare il suo contributo alla scienza collaborando nel campo della ricerca con alcuni istituti prestigiosi. Ma la sua vita incredibile parte tra le strade di Bolzano. Per raccontarla Roberto Faenza ha girato Hill of Vision in Alto Adige nell’agosto 2020, in piena pandemia, sostenuto nella produzione dal Fondo gestito da IDM Film Commission Südtirol. Il film – una produzione Jean Vigo Italia con Rai Cinema e Rhino Films – ha un forte legame con l’Alto Adige non solo dal punto di vista produttivo, ma anche per la storia vera del protagonista e il suo legame con la città di Bolzano. Mario ha solo cinque anni quando sua madre, la poetessa e attivista politica Lucy Ramberg, viene deportata in un lager nazista lasciandolo in affido a una famiglia di contadini dell’Altopiano del Renon. Ma è il 1943, la Guerra infuria e quella bocca in più da sfamare è un peso di cui disfarsi, così a soli cinque anni Mario si ritrova solo, vagabonda per le strade di Bolzano, si unisce a una piccola banda di bambini abbandonati a se stessi, vivacchia di elemosina e di espedienti. Da ragazzo emigra poi in America per volere della madre, che nel frattempo lo aveva incredibilmente ritrovato e voleva garantirgli una buona istruzione.

Le riprese per la seconda parte del film si sarebbero dovute spostare quindi negli Stati Uniti: le location erano già state fissate, ma quando la pandemia fa saltare il set oltreoceano, la Jean Vigo Italia trova la Pennsylvania sull’Altopiano del Salto, dove la montagna e la vegetazione ben si prestano al racconto americano.

Nella caserma Cesare Battisti di Merano è stata ricreata la scuola americana che Capecchi frequenta negli anni ’30; sempre al suo interno sono stati ricostruiti un intero villaggio di quaccheri e uno studio medico dell’epoca, ma anche la facciata del palazzo di Stoccolma dove nel 2007 Capecchi riceverà il Nobel. Il lavoro sulla ricerca delle ambientazioni è frutto anche delle competenze dei location manager locali, a partire da Valeria Errighi che ha poi passato il compito a Giuseppe Zampella, milanese residente da anni a Bolzano. I costumi del film sono di Milena Canonero, le scene di Francesco Frigeri. 

Cr. P.
27 Marzo 2022

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