Virginie Efira, ‘I figli degli altri’ sono “la nostra vocazione”

Rebecca Zlotowski porta in Concorso un film sul concetto di maternità. protagonista Virginie Efira, nel cast anche Chiara Mastroianni.


VENEZIA – La Tour Eiffel sberluccica romantica e vivace sullo sfondo della notte parigina, città d’ambientazione de I Figli Degli Altri (Les Enfants Des Autres), film in Concorso di Rebecca Zlotowski

Rachel (Virginie Efira) è un’insegnante di liceo, mestiere che – volente o nolente – le fa vivere un’inclinazione alla cura del prossimo, dei suoi allievi, di Dylan in particolare, un sentire che in qualche maniera può avvicinarsi a quella materno. Rachel è l’amante di Alì (Roschdy Zem), una storia appassionata, molto fisica – ci sono varie sequenze in cui la Efira mostra con disinvolta naturalezza il proprio corpo, mai gratuitamente –, ma anche pervasa da una dolcezza che si amplia oltre quella romantica con l’uomo, papà di Laila, bimba di quattro anni, che lui decide presto di farle conoscere e con cui la donna stabilisce una confidenza empatica, senza cercare di sostituirsi alla mamma – Chiara Mastroianni (Alice) -, che è a conoscenza della presenza della donna nella vita dell’ex marito, ma che con serenità accetta la cosa e anzi facilita il rapporto tra lei e la piccola. 

Rachel è anche una donna rimasta orfana bambina, compagna dell’ultimo “viaggio” della sua mamma, infatti era con lei nell’occasione drammatica dell’incidente che l’ha vista trovare la fine: ha una sorella, presto incinta, e un papà, sono una famiglia ebrea unita. 

Quello della matrigna “è un punto di partenza per fabbricare un racconto e ho pensato che forse questo film esistesse già, ma secondo me mancava la voce dei minori, di chi non ha ancor avuto modo di esprimersi: ho proposto un film aperto e vasto. Il film pone domande personali, ma si ha la tendenza a pensare che la maternità sia un discorso che riguardi solo le donne”, dice Rebecca Zlotowski.

Il film presenta un ventaglio di declinazioni possibili del concetto allargato di “maternità”, inteso come senso di cura e protezione verso creature non biologicamente proprie, ma che possono innescare un “senso materno”: in particolare, il coinvolgerla nella quotidianità con Leila, da parte dell’amante e con il consenso di Alice, amplifica in lei la riflessione su una maternità propria, che prova a cercare, che le sfugge, a cui può semmai trovare una soluzione indipendente infine, ma questo desiderio, che quando tale dovrebbe essere viscerale – che non significa ossessivo -, ma “di pancia” – in tutti i sensi, è proprio il caso di dirlo -, nella scrittura, nel film, col personaggio di Rachel, resta in superficie: difficile per il pubblico – soprattutto se femminile, in età fertile e con un senso materno proprio – innescare un’empatia, un’immedesimazione, troppa poco incisiva la modalità con cui Zlotowski fa vivere a Rachel questo desiderio. 

“È grave non avere figli?”, le domanda Vincent, collega con cui Rachel ha un rapporto particolarmente stretto, quasi intimo. Questione a cui la donna risponde spiegando il concetto del “sentirsi completa”: tema articolato, delicato, sfaccettato, ma che non innesca un fermento nella narrazione, né un poterne dibattere intorno. E, riprendendo la frase del film “essere madri significa partecipare a un’esperienza collettiva”, Efira commenta che “questo ha a che vedere con la scelta: era un appuntamento a cui pensava ma non era certa fosse il momento. C’è un futuro compreso in questo, un periodo incerto, vago, che può portare a farsi delle domande: ci sono donne fiere e coraggiose, che hanno deciso di non essere madri, poi c’è quello che mostra il film, e bisogna accettare qualcosa che non si può fare, che fa affrontare questioni molto più ampie. Quindi c’è una questione di scelta, appunto: cosa resta e cosa viene buttato via. Il rischio, il pericolo, il vissuto proprio: ci sono cose che ci fanno interrogare sul tempo finito, che ci avvicina per concetto a quello della morte. Il film è bellissimo perché fa chiedere dove lei riesca a progredire, rendendosi conto che si può continuare a vivere!”. 

E, rispetto alla potenza mascolina, la regista cita Il bell’Antonio con Marcello Mastroianni e dice: “io ho cercato di trasformare l’eroe in eroina, lei donna, in età fertile. È lì che ho sentito l’urgenza, come cineasta, di fare il film nell’immediatezza; la storia di questa donna che, appagata nella sua esistenza, però comincia a sentire un desiderio intimo, con un risvolto sociale, ma soprattutto quello maschile e della relazione”, dice ancora la regista, che aggiunge: “Quando non si lavora sugli stereotipi in maniera pigra, tutto questo ci porta a un cambiamento di paradigma, una linfa per riconoscere le questioni identitarie che agitano la nostra società e non mettendo in discussione le nostre evidenze ci priviamo di un pubblico che vuole identificarsi nei film: mi interessa la dimensione generosa e leale della scrittura di un film. Virginie e gli altri attori mi hanno aiutato affinché il film non fosse indottrinato, né ideologico”. 

Per Roschdy Zem: “Lei (Rachel) non è ancora riuscita a formulare le sue sensazioni, non sa come gestirle nella coppia. Il film io l’ho recepito come un tema molto intelligente, qualcosa che mancava nel cinema e che si sta evolvendo. Per questo, per me, è stato un privilegio nel mio percorso di attore: un’azione di progresso, quasi terapeutica”. 

Comunque, una soluzione esiste, Rachel non resta “incompleta”, infine, ma i livelli di delusione si sommano: l’amore tra Alì e Alice è spento ma “per Leila” torna al suo passato, seppur si definisca con Rachel “in trappola … perché ti amo”, quando la trappola a lei pare la sua, che così non può certamente pensare di avere figli con lui. Ma “la vita è lunga”, le dice con delicatezza paterna il ginecologo che la segue, e in questa vita lunga Leila cresce, Rachel matura e Alì un giorno incrocia il suo sguardo di sorpresa, ma il “segno materno”, Rachel, scoprirà di averlo lasciato davvero là dove c’era un germoglio che lei aveva intravisto, e ora è un fiore sbocciato. 

“È difficile arrivare a restituire l’intensità di un’emozione, un’audacia audace, un coraggio coraggioso: il film di Rebecca ha questa capacità”, aggiunge ancora Efira. 

Il film chiude in una Parigi notturna, sotto una pioggia battente, che Rachel attraversa sulle note vivaci di Les Eaux De Mars di Georges Moustaki, a conferma di una colonna sonora diffusamente viva e incalzante di tutto il film. 

Il film esce in Italia il 22 settembre con EuroPictures

Nicole Bianchi
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