Stefano Savona: oltre il lutto della pandemia

Le mura di Bergamo, a Berlino in concorso nella sezione Encounters, racconta i mesi più drammatici della pandemia, ma anche il dopo, l'elaborazione collettiva di un lutto


BERLINO – “Tre anni fa, a marzo del 2020, abbiamo attraversato un’Italia deserta per arrivare a Bergamo nel mezzo di una crisi mai vista. Per una volta non ero partito da solo, come avevo fatto per la rivoluzione in Egitto o l’invasione israeliana della Striscia di Gaza, ogni volta che volevo raccontare un conflitto. Stavolta mi accompagnava un gruppo di giovani registi, già miei studenti al corso di documentario del CSC di Palermo, con i quali avremmo provato a moltiplicare i punti di vista per un racconto corale di una realtà complessa, un’intera città che si ritrova da un giorno all’altro investita da una catastrofe imprevista e imprevedibile”. Una tragedia umanitaria, come si dice a un certo punto nel film. 

Le mura di Bergamo di Stefano Savona, a Berlino in concorso nella sezione Encounters, produzione ILBE – Iervolino & Lady Bacardi Entertainment con Rai Cinema, è un documentario, come sempre quelli di Savona, che non lascia spazio alle semplificazioni e va in profondità, consentendo alle immagini e agli sguardi di penetrare nella coscienza dello spettatore. Al centro della narrazione c’è la pandemia in un città come Bergamo, più duramente colpita di altre con 6.000 morti nella provincia solo dal 20 febbraio al 31 marzo. Ma al cineasta non interessa solo mostrare la malattia devastante, la lotta impotente dei sanitari, lo sgomento di chi soffre e la perdita di persone care. Quello che emerge dalla visione delle oltre due ore di documentario è il processo di elaborazione di un lutto collettivo che ci riguarda tutti.

Savona, autore di film importanti come Piombo fuso, La strada dei Samouni e Primavera in Kurdistan, alterna alla precisa documentazione delle varie fasi della pandemia, le immagini felici dell’infanzia e della giovinezza di una generazione spazzata via senza rituali di distacco. “Il corpo, in terapia intensiva, è parzialmente cosciente di quello che sta accadendo, anche se non può comunicare. Si sogna molto in quella condizione e si ricreano immagini legate agli stimoli: una luce, un rumore. Per questo, con i materiali dell’archivio di famiglia bergamasco della Cinescotti, montati da Sara Fgaier, abbiamo creato frammenti di memoria o anche veri e propri ricordi”.

Tanto spazio, nel film, anche a medici e infermieri: “In punta di piedi – prosegue il regista – abbiamo iniziato a filmare le vite di chi, rischiando in prima persona, cercava di affrontare, capire e superare l’emergenza che ci stava investendo tutti”. Sanitari e volontari, spesso sconsolati per mancanza di risposte adeguate, altre volte pronti a un gesto d’amore materno o fraterno verso chi stava soffrendo e morendo in assoluta solitudine.

“All’inizio quando siamo stati colpiti da questa tragedia è stata una sorta di shock – chiarisce il regista – penso alle immagini con i camion militari pieni di bare. Ora, dopo tre anni, bisogna ricordare quello che, per autodifesa, abbiamo dimenticato”.

Manca quasi completamente nel film l’aspetto della denuncia. “Certo che sono interessato ai temi politici e giudiziari, rispetto alla scelta tra sanità pubblica e privata, ma mi sono reso conto che era stato già molto trattato e che aveva senso come narrazione giornalistica, mentre il film cerca di dare altre chiavi di lettura”. E aggiunge: “L’ospedale di Bergamo è all’avanguardia in Europa, ma è stato praticamente raso al suolo da quello che è successo, lasciando sotto shock tutti quelli che ci lavoravano”.  

Il film ha immagini emotivamente disturbanti, anche perché a distanza di tre anni c’è stato un processo di rimozione collettiva, ma non è mai mancata la cura dei soggetti ripresi dalla camera. “Abbiamo avuto sempre grande rispetto per le persone, infatti non mostriamo i volti dei malati intubati, che sono comunque tutti sopravvissuti. Abbiamo lavorato in tempo reale e dunque ci sono immagini che possono dare fastidio, ma Bergamo è con noi. Molte delle persone che hanno partecipato sono qui con me a Berlino, per loro scelta. Se qualcuno parla in camera direttamente con l’operatore è solo perché ha voglia di farlo. Abbiamo sempre filmato da una distanza che non desse fastidio e se qualcuno ci raccontava la sua storia lo faceva spontaneamente e in maniera terapeutica”.

E ancora: “Siamo arrivati negli ospedali quando c’erano già state tante troupe. All’inizio le tv sono entrate nei reparti in maniera invasiva. Nei Tg di allora si sono viste immagini sconvolgenti”. Savona non nasconde di aver avuto attacchi di panico durante il montaggio. “Questo è un film su Bergamo, sulla memoria, ma anche un lavoro che trascende la storia che racconta. Ci mette in relazione con la morte. Abbiamo cercato di dimenticare quanto siamo mortali, perché ci siamo laicizzati, ma la pandemia ci ha ricordato che c’è la nostra morte e la morte dei nostri cari. Per questo, nella seconda parte del film, ho ripreso gli incontri tra alcuni dei protagonisti in cui le persone cercano di elaborare quello che è accaduto. E’ una collettività che piano piano riprende la parola, prima con pudore e con paura, e poi sempre di più con la consapevolezza che solo da questo sforzo la città può cominciare a curare i suoi traumi e i suoi abitanti ritrovare il senso del loro stare insieme. Per altri due anni siamo tornati a Bergamo per documentare questo rituale collettivo di elaborazione del lutto. Il film è la ricomposizione del mosaico della città”.

Le mura di Bergamo, in sala il 23 marzo con Fandango, è stato realizzato con il supporto di Danny Biancardi, Sebastiano Caceffo, Alessandro Drudi, Silvia Miola, Virginia Nardelli, Benedetta Valabrega, Marta Violante. Concorre anche al premio trasversale Berlinale Documentary Award

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