Laurent Cantet: Cuba come Itaca

L’Avana come nuova Itaca. Un luogo dove tornare, dopo essere fuggiti, da osservare dall’alto di una terrazza.


Maiali sgozzati, musica assordante, gente che litiga, gente che fa l’amore, tifo calcistico, whisky e rum. Accade anche, come nel film Ritorno all’Avana di Laurent Cantet (In originale, appunto, Retour à Ithaque), nelle sale da giovedì con Lucky Red in sessanta copie, che una serie di cinquantenni amici di sempre facciano i conti con il proprio passato, con la propria rabbia, con il rapporto di amore e odio con il regime che gli ha condizionato e in molti casi rovinato la vita. Il film, già presentato alle Giornate degli Autori alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, è stato scritto dal regista insieme al romanziere cubano Leonardo Padura considerato una sorta di Louis Ferdinand Celine cubano. 

Nel film, i protagonisti raccontano di come il regime abbia soffocato la loro vena artistica. Lei ha avuto problemi di censura?

Nessuna spia sul mio set, o se c’è stata, è stata davvero molto discreta. No, anzi, i permessi sono arrivati rapidamente e ho fatto il film che volevo fare. Anzi, siamo stati invitati al festival dell’Avana che si terrà a dicembre e non vedo l’ora di conoscere la reazione del pubblico. Il film è stato visto a Venezia, Toronto e San Sebastian e di complimenti ne ho ricevuti. Molti cubani si sono riconosciuti o mi hanno detto di averci visto la storia di qualche persona cara, ma non so se fossero cubani di nascita. Comunque, il paese è arrivato al punto di poter assumere uno sguardo critico su sé stesso.

Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia?

Il legame che c’è tra i protagonisti, ognuno ha bisogno degli altri ma non è certo un rapporto idealizzato, anzi. Ci sono tensioni e litigi ma hanno condiviso le illusioni e ora si ritrovano a rifletterci sopra. Più che un film su Cuba, è un film che si svolge a Cuba.

Un personaggio dice che “l’amicizia è un privilegio”. Lo pensa anche lei?

Assolutamente sì, è la madre di uno dei protagonisti. E’ uno dei miei personaggi preferiti. Dice questa cosa usando toni altisonanti e anche vergognandosene, ma è giusto che le cose a un certo punto si dicano, oltre a cercare di farle capire.

Il film ha un approccio molto teatrale e “aristotelico”. Una terrazza, una camera, una notte di dialogo…

Assolutamente, amo la teatralità nel cinema e la possibilità che ci lascia di ascoltare bene storie e dialoghi. Inoltre questa storia in particolare richiedeva questo tipo di approccio. Non avrebbe funzionato allo stesso modo se l’avessi fatta svolgere in tre settimane e facendoli incontrare una volta in strada, una volta in spiaggia e così via. Avremmo perduto potenza ed efficacia. La loro relazione si doveva concentrare tutta in un tempo e in un luogo, il che mi permetteva anche di avvicinarmi con la macchina da presa e catturare tutte le espressioni: la rabbia, l’amore, la disperazione, era un modo di essere vicini. Per contro, ho rotto questa teatralità con un linguaggio ben poco letterario: non parlano come su un palcoscenico, ma come nella vita. Dicendo un sacco di parolacce e interrompendosi, volevo che fosse tutto meno artificiale possibile. Niente di altisonante o aulico.

E’ vero che all’inizio doveva essere un cortometraggio?

Sì, per il film a episodi Sette giorni all’Avana. Ma abbiamo capito che l’argomento dell’esiliato che ritrova gli amici non poteva essere esaurito in 15 minuti. Così lo abbiamo messo da parte e lo abbiamo ripreso dopo che avevo terminato la lavorazione di Foxfire. Anche in questo senso realizzare tutto in un numero di location limitate è stata una sfida. Per un corto sarebbe stato normale. Isabelle e Fernando, due dei miei attori, li avevo già scelti ma mi dissero loro stessi che la storia era troppo importante per i cubani e che non volevano fare un corto. Quindi è stata anche una specie di impegno preso con loro.

In qualche modo il film ricorda Il grande freddo di Kasdan. Quali sono stati i suoi modelli?

Me lo dite in tanti, ma io non l’ho mai visto. Lo devo fare, a questo punto. No, casomai ho pensato a La terrazza di Scola che ho visto tanti anni fa ma appositamente non ho riguardato per non farmi influenzare. Anche qui c’è una terrazza che funziona da zattera che ci porta verso una città rappresentata in maniera più lontana possibile da una visione da cartolina.

Una zattera che riporta a Itaca?

Sicuramente c’è un tema insulare, con questo mare che brilla di giorno ma di notte diventa un buco nero e minaccioso che si riempie di tensioni e desideri nascosti. Inoltre nella storia recente di Cuba il mare è uno dei posti più sorvegliati. Da lì fuggiva la gente, a bordo di imbarcazioni improvvisate, salvagenti, bacinelle e bagnarole.

Come vanno invece le cose in Francia?

Ho perso la speranza da molto tempo. Non vedo pensiero politico o coerenza, gestiamo solo la crisi con soluzioni sempre temporanee ma anche tanto panico e poca coesione.

Andrea Guglielmino
28 Ottobre 2014

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