ALBERTO RONDALLI


L’Italia corre per il Pardo d’oro con un film recitato in turco e ispirato a un romanzo jugoslavo, Il derviscio e la morte di Mesa Selimovic. Eppure Dervis è un film italiano a tutti gli effetti, l’opera prima del quarantunenne di Lecco Alberto Rondalli. Scuola di cinema con Olmi, teatro con Eugenio Barba, cortometraggi e un medio, Quam mirabilis (1993) molto premiato e molto bello ma mai uscito nelle sale un po’ per la durata un po’ perché in bianco e nero. Infine un Padre Pio per Raiuno costretto a una vita solo televisiva.
Insomma, non è un centometrista ma un fondista, Rondalli. Se è vero che per mettere in piedi questo primo film si è impegnato con pazienza per anni, dal ’93, quando comprò i diritti del libro, per poi cercare di convincere qualcuno a rischiare sulla storia tanto astratta di un derviscio e di un’esecuzione capitale. Una storia quasi metafisica, la conversione alla rovescia di un uomo giusto anche se rigido che si trova costretto dal destino a sporcarsi le mani.
Alla fine il film si è coagulato attorno al coraggio di Luigi Musini e di Ipotesi Cinema, con un intervento turco – i produttori sono i fratelli gemelli di Ferzan Ozpetek – e il sostegno di Tele+ ed Eurimages. “Sembra si stia superando l’atteggiamento di quei produttori che cercavano di ricondurre subito tutto a qualche formula e si stupivano se un soggetto non si poteva raccontare in cinque parole. Ora è il cinema medio a deludere, mentre opere più complesse e rigorose, come Il mestiere delle armi, trovano un loro pubblico. E questo può essere il motivo della rinascita italiana”.
Di Locarno si dice contentissimo. “Forse Venezia ci avrebbe dato qualche chance in più per farci vedere, perché soldi per la pubblicità ne abbiamo pochi, ma va bene così. E’ entusiasmante anche lavorare a ritmi forsennati per finire il missaggio entro due settimane”.

Cosa ti ha conquistato in questo libro.
È un romanzo dalla struttura drammaturgia fortissima e infatti in Jugoslavia è uno dei testi più rappresentati in teatro. Nel ’70 è anche diventato un film. Mentre il libro è molto letto, è un testo scolastico obbligatorio, come da noi Manzoni.

È un romanzo molto complesso, quasi metafisico…
Intreccia due piani. Una vicenda umana di odio, tradimento e desiderio di vendetta e un significato trascendente, perché il protagonista è un mistico, un derviscio mevlevi (per saperne di più leggi una scheda in rete) e per un mistico ogni evento umano pone interrogativi a livello metafisico. Ahmed Nurettin, abituato a dare risposte teoriche, deve rimettere in discussione l’impalcatura e sporcarsi le mani. Fino a trasformarsi consapevolmente in un uomo peggiore di coloro che hanno commesso l’ingiustizia.

È dunque una storia di perdizione…
È una storia di conversione alla rovescia e senza resurrezione per alla fine resta solo la morte affrontata con dignità. Allo scrittore fu ispirata da una vicenda reale: i partigiani comunisti uccisero suo fratello perché aveva sottratto da un ammasso un letto e un tavolo, voleva andare a vivere con la donna che amava e che per molti anni era rimasta lontana da lui, prigioniera in un campo tedesco. Selimovic fu costretto a elaborare questo sopruso attraverso un’astrazione, spostando quella vicenda nell’impero ottomano di fine 800, io ho creato un allontanamento ulteriore, perché dalla Bosnia ho ambientato tutto in Cappadocia.

Hai avuto contatti con il mondo sufi?
Sì, all’inizio sono stati molto cauti, poi ci hanno ammesso nei loro circoli, sempre più ristretti e alla fine abbiamo avuto la consulenza di Kemal Karaoz e Nehmet Fatih Citlak, che hanno anche composto le musiche. In Turchia i dervisci non hanno vita facile, e questo spiega in parte la diffidenza: messi fuori legge da Ata Turk nel ’24, sono oggi appena tollerati.

Hai trovato affinità tra la cultura sufi e quella cristiana?
I punti di contatto sono enormi, e riguardano le radici neoplatoniche o gnostiche. Ma direi che c’è una comunione di domande più che di risposte, ed è questo che mi interessava soprattutto.

Ti senti un isolato nel cinema italiano?
Non ci ho mai pensato più di tanto. Faccio quello che mi sento e che so fare. Ma certo, a Sorrento, in mezzo agli altri progetti italiani, risaltava la diversità del mio.

Gli attori sono tutti turchi, eccetto il protagonista, che è spagnolo. È stata una difficoltà in più?
È stata la cosa meno faticosa. Esiste una lingua comune tra regista e attori. E l’esperienza teatrale mi ha aiutato a trovarla.

Cristiana Paternò
19 Luglio 2001

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