Luc Besson: l’intervista


I bambini di Alice nella città sono tantissimi, attenti, preparati e, giustamente, chiassosi. La direttrice Fabia Bettini li organizza come la maestra di un immaginario e immenso coro di voci bianche e loro ascoltano il direttore d’orchestra Luc Besson, che ha portato qui il “making of” di Arthur e il popolo dei Minimei, il film da 65 mln € che a Parigi uscirà a Natale e da noi a febbraio con 01 Distribution.
Un gioiello di animazione in 3D e live action (cioè scene recitate da attori veri) nato dalla trilogia di libri per ragazzi (ce ne ha letta qualche pagina Federico Taddia) che l’autore di Nikita, ormai stufo di ripetersi dietro la macchina da presa, ha dato alle stampe negli ultimi anni. I tre volumi, da noi pubblicati da Mondadori negli Oscar, hanno venduto piuttosto bene (dalle 85mila copie del primo alle 40mila del terzo “Arthur e la vendetta di Maltazard”) facendo conoscere ai ragazzi il loro coetaneo che ha 10 anni e che si trova, come “Alice nel paese delle meraviglie”, a vivere mirabolanti avventure nel giardino di casa. Proprio tra i papaveri del prato, abita infatti un intero popolo di gnomi alti due millimetri: tra loro ci sono la bella e ardimentosa principessa Selenia e il simpatico e buffo Bétamèche, mentre il cattivo M minaccia la pace di questo reame ecologista e pacifico. Con l’emergente Freddie Highmore (La fabbrica di cioccolato) nel ruolo di Arthur in carne ed ossa e le voci di Madonna, David Bowie e del rapper Snopp Dogg, Arthur e il popolo dei Minimei fa le prove generali per diventare un blockbuster proprio alla Festa di Roma.

 

Come mai ha deciso di diventare scrittore?

Preferisco scrivere, perché quando scrivi sei da solo e non dai fastidio a nessuno. In più puoi inventare quello che ti pare, un’invasione di 100 zanzare diventa facilmente una flotta di 500 zanzare. Puoi metterci 15 pagine per descrivere un giardino, insomma sei libero. Fatelo anche voi, bambini, prendete un quaderno e scrivere le vostre storie.

 

Allora è vero che vuole smettere con la regia?

Questo no. Ho solo detto che dopo dieci film, diventa sempre più difficile reinventarsi ogni volta. Come un atleta che non riesce più a battere i record e pensa a ritirarsi. Oggi, se scelgo un progetto, lo faccio per entusiasmo e non per i soldi.

 

In questo caso l’idea nasce da un disegno di Patrice Garcia.

Sì, Patrice, che è l’autore delle bellissime copertine del libro, mi aveva proposto di fare una serie televisiva, ma io gli ho risposto, perché non facciamo un grande film? Poi è arrivato Pierre Buffin, un genio degli effetti speciali, che ha selezionato i 200 migliori giovani talenti usciti dalle scuole di animazione europea, che devo dire sono ottime scuole.

 

Crede che l’Europa possa battere la concorrenza americana su questo terreno?

Credo che il cinema d’animazione francese, ceco, italiano e anche giapponese abbia una grande tradizione e credo che l’Europa, dall’Antica Grecia in avanti, possegga una cultura ricchissima. Arthur non è una risposta al cinema americano, ma una cosa a sé, anche se sono stati gli americani, con Toy Story, a farci entrare in una nuova era del cinema d’animazione. Oggi si possono fare cose prima impensabili. Nel nostro film è difficile capire cosa è vero e cosa è realizzato al computer.

 

Arthur somiglia un po’ a Luc da bambino?

Un po’ sì. Anch’io giocavo da solo, anch’io avevo un cane sciocco e facevo le vacanze dalla nonna. Ma non ho mai guidato una zanzara e non ho mai dormito in un fiore. A 10 anni sognavo di diventare astronauta ma ero troppo pesante, poi volevo fare il delfinologo ma avevo qualche problema con le immersioni, così alla fine mi sono innamorato del cinema.

 

 

 

 

 

Cristiana Paternò
16 Ottobre 2006

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