Jacques Audiard: la tigre dentro

‘Dheepan’ è stata la Palma d’oro dell’ultimo festival di Cannes. Non senza qualche polemica.


Il film di Jacques Audiard ha infatti colpito molto il pubblico per la sua analisi schietta e spietata delle problematiche relative a immigrazione e integrazione, con la storia di un soldato, una ragazza e una bambina in fuga dalla guerra civile in Sri Lanka che si fanno passare per una famiglia e riescono a rifugiarsi in Francia. Ma ha anche lasciato di stucco per una svolta ‘action’ e violenta – con tanto di massacro finale – che sposta bruscamente l’asse dal dramma sociale al ‘genere’ con una disinvoltura non immediatamente digeribile. Di questo e d’altro abbiamo parlato con il regista, a Roma per accompagnare l’imminente uscita del film in Italia, il 22 ottobre con BiM in 100 copie.

Pensa che il suo film possa aiutare a risolvere le questioni relative ai migranti?

Penso che il film segua un percorso parallelo. Si prende qualcuno di sconosciuto e gli si presta una storia. Risponde a un problema tipico dei migranti, che sono anonimi per definizione.

E’ sicuramente un film d’autore ma, come in altri suoi film, il protagonista sembra pensare che la soluzione finale sia nella violenza…

Beh, sono io stesso costretto a constatarlo. Non ho certezze assolute ma mi rendo conto che necessito di questa stilizzazione, per far sì che i personaggi diventino ‘cinema’ e lo spettatore si accorga di star seguendo una vicenda cinematografica. Fino a un certo punto mi muovo nell’ambito della verosimiglianza, poi traccio una linea. E lo faccio proprio nel film, con il protagonista che divide in due idealmente il quartiere. A quel punto sto interrogando lo spettatore. Gli sto dicendo: “stiamo passando un confine, mi seguirai?”. 

Paradossalmente in quel momento i personaggi diventano vulnerabili…

Diventano figure ‘di genere’. Quando c’è la violenza, o la sparatoria. E’ un passaggio che mi interessa molto. Più della politica. Mi piace parlare di cinema. Se me lo chiedete, per me è un film sull’integrazione sociale più che sull’immigrazione.

Ha pensato a qualche precedente, in particolare? Magari a Rambo?

No, non Rambo. O almeno non consciamente, anche se tutto può essere. Ho pensato a History of Violence di Cronenberg, la scena sul prato tra padre e figlio. O anche a me stesso,  ne Il Profeta, quando il protagonista diventa sordo. Mi hanno detto anche che sembrava la scena finale di Taxi Driver, ma la verità è che il cinema ti resta impresso e quando poi lo ritiri fuori non ne sei del tutto cosciente.

Dopotutto, il protagonista è un soldato. E lo è stato anche il suo interprete, Antonythasan Jesuthasan, che da bambino ha combattuto con le Tigri Tamil e oggi è uno scrittore di successo. Questo ha influenzato la sua performance?

Beh, dovrebbe chiederlo a lui. Io posso dire che quando decidi di lavorare con attori non professionisti si pensa che tu li stia scegliendo per quello che loro sono veramente. Ma non è così. Io invece insistevo e dicevo a Antony di distinguere se stesso dal personaggio. E’ stato un lavoro complesso ma non difficile, abbiamo semplicemente lavorato sulla voce, sulla postura, sulla gestualità, sul modo di vestirsi.

So che non le piace il termine, ma in questa storia del ‘cane di paglia’ che inizialmente è calmo e poi esplode c’è un significato politico?

Noi occidentali siamo di una ricchezza di cui non ci rendiamo nemmeno conto. Questa gente ha vissuto la guerra in condizioni infernali, si è salvata le penne chissà quante volte, hanno subito e visto violenze inimmaginabili e le hanno incamerate. Dobbiamo chiederci cosa ne faranno, dove finirà tutta questa rabbia. Ed è tutta lì, proprio nel cingalese che si mette le cuffiette buffe per vendere le rose. Ai soldati che tornano dall’Iraq sono affiancate intere squadre di medici per aiutarli a superare la sindrome da stress post-traumatico, è estremamente razzista da parte nostra pensare che gli extracomunitari ne siano immuni. E non pensare a cosa potremmo fare per aiutarli.

La famiglia porta la salvezza?

Non la famiglia, l’amore.

Non è controproducente dipingere l’Inghilterra come una terra d’accoglienza?

E’ un aspetto del film che è stato molto criticato, ma no. Quella non è l’Inghilterra reale, è un’Inghilterra da film. Anzi, non è nemmeno l’Inghilterra, ho girato quelle scene in India, proprio perché volevo che si vedesse la finzione. Volevo che mi scaldasse un sole indiano. Bisognerà aspettare il 2050 per avere un sole così a Londra.

Ha girato in maniera molto naturale, sia a livello di fotografia che di recitazione. In una scena la protagonista femminile dice ‘sembra di essere  in un film’, ma in realtà è vero il contrario…

Un sapore di ruggine e ossa era basato su una sceneggiatura prefabbricata e chiusa. Ho apprezzato le virtù di quel genere di lavoro però in questo caso ci voleva altro. Abbiamo deliberatamente lasciato alcune parti di sceneggiatura ‘vuote’ perché gli attori le costruissero direttamente sul set. Tra l’altro non parlavano la mia stessa lingua quindi questo ci ha aiutati tutti. In particolare per le scene che riguardano i rapporti tra i tre protagonisti, abbiamo voluto che improvvisassero e si basassero su intuizioni spontanee. Alle volte mentre giravo una scena scrivevo quella successiva. E’ stato interessante.

Andrea Guglielmino
08 Ottobre 2015

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