Gianni Amelio: “La scuola non è obbligo ma diritto”

Alla Festa di Roma presentato il film di montaggio, prodotto da Istituto Luce Cinecittà, sulla storia dell'educazione nell'Italia tra il fascismo e il boom economico


Nasce da un progetto mancato, Registro di classe, il film d’archivio di Gianni Amelio e della montatrice Cecilia Pagliarani presentato alla Festa di Roma. “Volevo fare un lungometraggio su una maestra del dopoguerra, ispirato a una mia zia che insegnava nella scuola serale in Calabria e che ogni giorno si faceva 16 km a piedi tra andare e tornare. Avrebbe dovuto essere il racconto di una ragazza che esce dalle magistrali e va a fare la scuola serale a 300 adulti, solo uomini, dai 21 ai 100 anni. Il film non me l’hanno fatto fare, ma Roberto Cicutto mi ha aperto l’archivio del Luce e così è nato questo primo capitolo, dal 1900 al 1960, a cui ne seguiranno almeno altri due”. Dopo Felice chi è diverso Gianni Amelio torna quindi a lavorare su materiali d’archivio per comporre una storia dei diritti negati o conquistati faticosamente. Qui sui banchi scolastici del Regno e della Repubblica, tra analfabetismo di massa, esaltazione dell’educazione fascista e classismo del dopoguerra e degli anni del boom, quando la massima aspirazione era avere il figlio ingegnere o dottore. Oggi le nuove sfide riguardano l’integrazione e il sostegno alla scuola pubblica.

Registro di classe sarà in sala per 48 ore in tutta Italia con proiezioni e dibattiti rivolti a studenti e insegnanti, come spiega l’ad di Istituto Luce Cinecittà. Tra i sostenitori ovviamente il Miur – che ha aperto le sue biblioteche – e la Rai, che lo coproduce e lo manderà in onda. Il libro secondo, dagli anni ’70 al 2000, sarà pronto per il 30 novembre.

Amelio, il suo film parla della scuola di ieri, come vede quella di oggi?
Sono stati fatti progressi enormi. Ma lo sviluppo è stato accompagnato da un errore di fondo: si è parlato di scuola dell’obbligo, parola che ho in odio, si sarebbe dovuta chiamare scuola del diritto. Chi non è andato a scuola e aveva bisogno che le forze dell’ordine andassero a stanarlo a casa o nei campi, era perché non poteva permetterselo. Dal 2000 l’istruzione viene considerata un fatto che spetta alla famiglia. Da parte di chi fa le leggi c’è disinteresse perché qualcuno supplirà al nostro disimpegno. Questo porta a un trattamento terribile dei maestri: sono una delle classi lavoratrici più martoriate e sottopagate. La disistima del loro lavoro si traduce in menefreghismo da parte loro perché si sentono emarginati.

Il sostegno alla scuola privata crea ulteriori disparità. 
Nel film viene mostrata la situazione a Napoli negli anni ’60: c’è la scuola svizzera efficiente e costosa per i ragazzini del Vomero, e ci sono gli scugnizzi che non vanno a scuola e raccolgono i cartoni insieme al padre. Ma il problema non è la scuola, è aver ridotto quel genitore in una condizione disperata. Oggi il privilegio delle scuole private è discutibile. I costi delle rette e le altre spese, dalla divisa ai libri, impediscono di fatto l’accesso al 90% dei bambini. Quella è davvero una scuola di classe. 

La classe dunque come insieme di alunni ma anche come classe, ceto sociale. Un fattore che continua a incidere profondamente sull’educazione.
La scuola, nella sua cecità, oggettivamente discrimina, forse non lo fa apposta, ma di fatto fa cadere dall’alto qualcosa che dovrebbe nascere insieme all’uomo. Tutti dovremmo avere gli stessi diritti alla nascita e si dovrebbe cominciare proprio dalla scuola.

Come dovrebbe essere la scuola del futuro?
Dovrebbe superare gli errori del passato anche recente. Nel libro primo di Registro di classe si vede un’Italia divisa in due tra Nord e Sud. Lo spaesamento del maestro di Bologna mandato a insegnare in Basilicata, dove parlano un dialetto che non capisce, somiglia al disagio degli insegnanti di oggi trasferiti lontano da casa. Non è obbligatorio che uno lavori in casa propria, però il buon senso potrebbe far sì che ci si incontri a metà strada. In Così ridevano raccontavo l’Italia degli anni ’50 e l’emigrazione interna che provocava problemi di comunicazione perché la lingua connotava come diverso il meridionale che arrivava a Torino dal Sud e che veniva visto come un essere di serie b. Il contrario non accadeva perché il torinese a Catanzaro non ci andava mai. Oggi il dialetto viene sostituito dalle lingue straniere. Se andate in una scuola a Colle Oppio il 30% degli allievi sono figli di extracomunitari. Per questi bambini la lingua italiana è una lingua straniera.

Che ricordo ha delle sue elementari?

Erano gli anni ’50 e si parlava in dialetto con l’insegnante. Noi bambini non sentivamo la mancanza dell’italiano. Il maestro Grande era severissimo, passava il pomeriggio sul balcone di casa sua per vedere se qualcuno di noi era per strada, perché voleva dire che non aveva fatto i compiti. Studiavamo ancora su un sillabario fascista, ma si parlava in calabrese. Da adulto ho fatto il professore in seconda media a Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, ero appena uscito dal liceo e insegnavo quasi solo a tradurre il dialetto. Pensate – per capire la difficoltà – che in calabrese “brocca” significa forchetta.

Oggi la stessa difficoltà appartiene ai figli degli immigrati.

Le mie nipotine sono di padre albanese e madre polacca e hanno fatto uno sforzo enorme per imparare l’italiano.

Il film ci mostra la propaganda fascista in azione. 

Le immagini che vediamo nel film vengono da un filmato propagandistico sulla scuola fascista rivolto a spettatori stranieri. Uno spot riuscito su qualcosa di nefasto, mentre oggi magari non sappiamo comunicare bene qualcosa di buono. I fascisti davano a intendere che ci fosse la libertà, che gli alunni fossero tutti uguali, in realtà erano obbligati a essere scolari fascisti. A un occhio distratto certe azioni possono apparire quasi positive, ma in realtà si allevavano dei prigionieri, dei polli in batteria. E poi dietro la facciata venivano istruiti alla guerra, come si svela nella parte in cui i bambini indossano le maschere antigas. Diventano marionette, mostri senza espressione, e nessuno gli insegna che la guerra è una cosa atroce. 

In Lettera a una professoressa, il famoso libro uscito dalla scuola di Barbiana di Don Milani nel 1967, si contestava l’educazione discriminatoria nei confronti dei contadini, definendo la scuola un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Quei principi sono ancora validi? Come possono essere aggiornati?
Il nodo delle etnie incrociate somiglia al disagio del figlio del contadino nella scuola retta dalla “professoressa”. Pasolini lo dice molto bene quando parla del percorso piccolo borghese di una società che non dà accesso alla cultura ai figli dei contadini. Ma il finale del primo libro di Registro di classe, con le immagini della scuola di Barbiana, è un finale di speranza.  

Cristiana Paternò
19 Ottobre 2015

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