Felice Pesoli: beat e pacifisti nella Milano di fine anni ’60

Prima che la vita cambi noi è un documentario che racconta le tappe e i temi della controcultura giovanile libertaria e pacifista che affonda le radici nella beat generation e negli hippies


TORINO. “Un inverecondo bivacco di zazzerutti” titolava la stampa milanese, dal ‘Corriere della Sera’ a ‘La notte’, “l’apparizione in modo sempre crescente dei cosiddetti capelloni” scriveva il prefetto della città nella seconda metà degli anni ’60. Così veniva etichettato il nascente movimento giovanile che affondava le sue radici nella beat generation e negli hippies, sull’onda delle proteste giovanili americane. Prima che la vita cambi noi (sezione Festa mobile) di Felice Pesoli è un documentario che racconta le tappe e i temi di quella controcultura giovanile libertaria e pacifista che s’affaccia prima del Sessantotto politico e dei gruppuscoli marxisti leninisti e con quest’ultimi condivide i primi anni ’70.
Al centro della loro vita, della loro affermazione sociale quei giovani pongono: la musica e i festival pop, l’uso creativo delle droghe, i nuovi costumi sessuali, le comuni, il mito del viaggio in India e dintorni, l’influenza delle filosofie orientali, un nuovo rapporto con il corpo, il ritorno alla campagna.
Sarà “un movimento attraversato da slanci utopici e spinte autolesioniste, buone idee e ridicole presunzioni”, come afferma il regista. Il titolo del film è una citazione di uno slogan della rivista di controcultura ‘Re Nudo’ – “Cambiamo la vita, prima che la vita cambi noi” – che invitava a trasformare il mondo ora, senza aspettare il “sol dell’avvenire”. Insomma il cambiamento era possibile mettendosi in gioco da subito, con la radicalità esistenziale di cui si è capaci.

Quale stereotipo ha voluto contraddire?
Quello che tende a sovrapporre la rivolta giovanile di fine ’60 e primi anni ’70 con i cosiddetti ‘anni di piombo’, con l’idea che c’era solo gente che si sparava e s’inseguiva. La violenza ha rubato la scena e ci ha lasciato una fotografia incompleta. E’ rimasta fuori dall’inquadratura l’altra faccia del movimento. Non c’è nostalgia nel mio film, rivendico il fatto di mettere a posto la memoria, riconoscendo che anche noi di quel movimento libertario, che non si riconosceva nel marxismo leninismo della nuova sinistra, abbiamo commesso degli errori.

Il film all’inizio aveva un altro titolo?
Anni senza piombo che ho trovato poi troppo asservito al concetto e un po’ meno aderente a quello che volevo affermare.

Come ha proceduto nella costruzione del documentario?
E’ frutto sia della mia personale esperienza e sia di un lavoro e studio su quegli anni grazie a una presenza significativa di testi e pubblicazioni. Inoltre ho cercato delle persone da intervistare che fossero da un lato altamente rappresentativi di quel periodo come Andrea Valcarenghi, all’epoca direttore della rivista ‘Re Nudo’, o Claudio Rocchi il cantante, purtroppo scomparso, di riferimento di quell’area mistico hippy, e ancora Eugenio Finardi, Gianni De Martino direttore della rivista ‘Mondo beat’. E poi ho voluto le testimonianze degli amici.

Il film non è solo memoria di un tempo passato.
Non ho fatto nessun tentativo di attualizzare, semmai racconto a mia figlia ventenne che gli anni di piombo sono un coperchio troppo piccolo per farci stare dentro tutto. Noi abbiamo fatto degli altri errori, ma rivendico che non sono gli stessi di quell’altro percorso. Il nostro è stato esistenziale e al tempo stesso culturale. Il film allora è un mix di conoscenza, memoria, ricostruzione.

Quale procedimento ha adottato nella costruzione del film?
Quello di definire dei grandi temi, e intervistare quasi tutti su questi stessi temi e poi intersecare, tagliare. Ho evitato la voce fuori campo, ho scelto che fossero loro a raccontare, poi ho accoppiato i materiali e i testi e a volte comandano gli uni e a volte gli altri.

Dal documentario, senza che venga gridata, viene spontanea la conclusione che alcuni dei temi, che quel movimento sperimentava in anticipo, sono oggi diventati patrimonio di molti.
Non c’è stato bisogno di sottolinearlo. Diciamo che dai maoisti non è nato un gran che, mentre da quel movimento sono nate una serie di cose che adesso sono pratica quotidiana e che in quei tempi erano invece il frutto di una scoperta: dalle discipline orientali alla ritorno alla vita in campagna, un nuovo rapporto con il corpo, l’alimentazione, la sessualità. C’è molta gente nuda in questo documentario, un elemento che mi ricorda quegli anni in modo particolare.

Ci sono altri lavori su quel periodo?
Io non ne conosco, credo che nessuno si sia preso l’incarico. Esiste qualcosa su specifici argomenti, su singole esperienze. So di un documentario realizzato sulla comune siciliana di Terrasini, ma si tratta di un microcosmo e io ho preferito fare un volo.

La ricerca dei materiali video è stata difficile?
Ho trovato parecchi vuoti. Un amico fotografo Italo Bertolasi, che vediamo nel documentario, mi ha confermato che in quel periodo l’idea di essere fotografati non era accettata. Non tanto perché le fotografie potevano finire in questura, ma perché c’era l’ideologia dell’essere presente nelle situazioni, la vibrazione. Se qualcuno si tirava fuori, guardava dall’esterno quel mondo e lo fotografava, non risultava simpatico.

Le immagini in pellicola hanno ancora una qualità eccellente.
Non quelle girate nei vari formati elettronici video di quegli anni che sono molto deteriorate e dovrebbero essere presto riversate in digitale. C’è allora l’urgenza di salvare quei supporti elettronici che sono a volte nelle cantine umide. Mi è accaduto di imbattermi, nel caso di videocasette, con immagini che svanivano mentre le guardavi.

Nel documentario non si parla delle feste a Parco Lambro della metà degli anni ’70, come mai?
Non ho voluto documentare quegli eventi perché, anche se non c’è un preciso punto d’arrivo, idealmente mi fermo al 1974. Da quella data in poi succedono fatti che non controllo più, avviene una grande confusione sociale: i gruppi si sfasciano, alcuni vanno verso la violenza, altri si hippizzano, gli stessi che si fanno le canne sono poi quelli che usano le spranghe. La situazione milanese diventa confusa, molto difficile da raccontare. All’inizio volevo inserire le vicende di Parco Lambro, poi ho capito che era un’altra storia, rinunciando a materiali bellissimi, a cominciare dai tanti lavori realizzati da Alberto Grifi.

Stefano Stefanutto Rosa
26 Novembre 2015

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