Erik Gandini: la solitudine del modello svedese

Il regista di Videocracy porta fuori Concorso a Visioni dal mondo La teoria svedese dell’amore sulle crepe di una società conosciuta come un modello di progresso e costruita sull’autonomia


MILANO. Avevamo apprezzato qualche anno fa alla Mostra di Venezia il suo Videocracy documentario sul mondo e i mostri creati dalla tv commerciale, da Lele Mora a Fabrizio Corona, dai tronisti alle letterine, ai coretti sorridenti tutti al femminile di ‘Per fortuna che Silvio c’è’. Il regista Erik Gandini, trapiantato in Svezia dal 1986, porta fuori Concorso a Visioni dal mondo La teoria svedese dell’amore, un documentario insolito e raffinato sulle crepe del modello svedese. Una società conosciuta come un modello di progresso e costruita sull’autonomia e l’indipendenza delle persone svela punti deboli e una diffusa solitudine.

Il documentario di Gandini è una serie di ritratti di persone legate a questa espressione forte di individualismo, peraltro finanziata e garantita dallo Stato: la donna che ha deciso di fare due figli, senza una relazione di coppia, ricorrendo alla banca dello sperma; l’istituto pubblico che si occupa di rintracciare i parenti di persone dimenticate e morte in solitudine, facendo un’investigazione familiare (ricordiamoci che la metà degli svedesi vive sola); un chirurgo che, nonostante viva bene in Svezia da oltre 30 anni, ha deciso di andare in Etiopia con la moglie africana alla riscoperta del valore della comunità; i giovani organizzano raduni nei boschi per arrendersi alle emozioni e alle affettuosità; e poi i tanti profughi che, pur garantiti nella loro autonomia, vivono soli in appartamenti della periferia senza relazioni sociali e con  il loro sistema di valori in contrasto forte con il modello scandinavo. In chiusura il sociologo Zygmunt Bauman, che è stato il primo a teorizzare questa indipendenza perseguita a tutti i costi, e ora mette in discussione quell’idea che ha comunque un suo valore.

Dopo aver raccontato l’Italia ha voluto occuparsi di un paese che ormai conosce bene vivendoci da 30 anni.
All’inizio c’era un’idea molto vaga di che cosa identifica la Svezia, poi ho scoperto grazie a un libro che tutto iniziava nel 1972. Mi colpiva della Svezia l’idea di una socialità diversa da quella italiana fino a quando ho capito che c’era un’idea molto scandinava legata all’autonomia dell’individuo. Negli anni ’70, gli anni d’oro del welfare state, tuttora molto forte, si mise in discussione la famiglia come contesto disfunzionale, pericoloso, si cercarono nuovi modi di vita

Nel film si cita il leader socialdemocratico Olof Palme che fu primo ministro in quel periodo, dal 1969 al 1976.

Un pilastro della socialdemocrazia svedese che volle modernizzare il paese. L’idea, nata in parte nel contesto della sezione femminile del partito di Palme, con il manifesto ‘La famiglia nel futuro’, è che negli anni a venire anziani, figli, donne non dovranno mai dipendere dai propri familiari. Lo Stato si assume questa responsabilità, con la riforma delle pensioni e un sistema di sussidi. Alla base l’idea dell’indipendenza dall’altro è un’idea sacrosanta, di cui anch’io ho giovato, studiando in piena autonomia.

Ma in questo stile di vita c’è un risvolto.
Emerge una solitudine particolare. Il 50% degli svedesi vive solo, 1 su 4 nel momento della morte è solo, e un’indagine della Croce Rossa ha evidenziato che il 40% degli adulti ha paura di restare solo. C’è allora un problema di fondo e il film analizza cosa c’è oltre questa idea assoluta di indipendenza che porta a teorizzare che l’amore autentico può esistere solo tra due persone fondamentalmente indipendenti l’una dall’altra.

In quanto tempo ha realizzato La teoria svedese dell’amore?
Il processo artistico è durato tre anni. Il montaggio richiede molto tempo, perché non c’è un plot, una struttura narrativa. Devi tenere in piedi l’interesse mettendo insieme sequenze, lavorando sull’estetica e sul contrasto. Si tratta del cosiddetto essay documentary, che anche Pasolini faceva, e nel quale tu prendi il comando della storia, non dipendi dagli altri per l’appunto.

Com’è considerato in Svezia il documentario?

E’ visto come una garanzia di democrazia, come libertà del cittadino di esprimersi.  Non è considerato un genere di serie B, viene recensito al pari dei film di finzione ed esce nelle sale. Ci sono risorse a disposizione che vengono dall’Istituto cinematografico svedese a cui va il 10 per cento del biglietto d’ingresso venduto. Un sistema alla Robin Hood se pensiamo agli incassi di titoli come Spectre.

Le sue opere hanno sempre una riconoscibile impronta musicale.
La musica aggiunge una dimensione emotiva, io e il montatore passiamo ore a cercare la musica giusta. E’ molto sensibile l’abbinamento tra musica e tema della sequenza. Alla base di tutto c’è questo sguardo non neutrale, lontano dall’idea del documentarista come osservatore imparziale. Usiamo molte musiche di un archivio danese che raccoglie quelle composte per il cinema dagli anni ’40 ai ’60, musiche  non digitali, dimenticate da tutti.

Che cosa è importante per un documentarista?

Fondamentale  è non rendersi dipendenti dall’attualità, l’obiettivo è fare film che ha senso mostrare anche a distanza di tempo, l’attualità è effimera. Giornalismo e documentario sono due generi diversi. La maggior parte del contenuto mediatico che ci arriva come spettatore è realizzato da gruppi di persone, redazioni, case di produzione. Il documentario è uno dei pochi generi che puoi creare da solo, il singolo è l’emittente  e Michael Moore l’ha dimostrato benissimo con la sua visione del mondo.

A chi o a che cosa deve la scelta di diventare documentarista?
Alla visione del documentario Shoah di Claude Lanzmann avvenuta quando 19enne mi trasferii con la mia famiglia a vivere a Stoccolma. In Svezia non c’era ancora la tv commerciale come in Italia, ma solo due canali statali senza pubblicità e molto educational. In due serate andarono in onda le dieci ore di Shoah e scoprii l’altra faccia del documentario, che fino ad allora identificavo con quello d’arte o di natura. La scuola di cinema che frequentai mi spinse a lavorare all’esterno in modo semplice, con videocamera e microfono.

Stefano Stefanutto Rosa
13 Dicembre 2015

Visioni dal mondo 2015

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Gli esuli del terzo millennio

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