Paolo Martino: Italia "Terra di transito" o trappola per i rifugiati?
BARI - “A volte penso che sarei stato più fortunato se fossi rimasto ucciso in Afghanistan, perché qui in Italia muoio ogni giorno”. Sono le agghiaccianti parole – “Non un momento di disperazione, ma un’analisi ragionata” - di uno dei protagonisti di Terra di transito, il documentario con cui Paolo Martino ritrae la condizione di migliaia di uomini e donne in fuga dalla guerra che rimangono “intrappolati” nel nostro Paese a causa del regolamento di Dublino, la norma che impone ai rifugiati di risiedere nella prima nazione d'ingresso in Unione Europea. Peccato che l’Italia garantisca solo i documenti, ma non casa, lavoro, istruzione, ovvero le condizioni per sopravvivere dignitosamente. Prodotto da A buon diritto con la collaborazione di Istituto Luce Cinecittà (che lo distribuirà), Terra di transito segue i passi di Rahell, fuggito dall’Iraq sotto attacco chimico e approdato in Italia dopo aver attraversato Siria, Turchia e Grecia. Ma con il miraggio della Svezia, dove sono arrivati alcuni suoi familiari, che lì hanno ottenuto casa, lavoro e diritti. Il film ha il suo debutto oggi al Bif&st e sarà presentato prossimamente in diversi festival.
Il documentario è nato dall’incontro con Rahell o viceversa?
Mi interesso alle sorti dei rifugiati come reporter dal 2008 e quando ho scoperto questa rotta seguita da migliaia di rifugiati, tra Afghanistan e Italia, ho voluto percorrerla. Dopo aver già attraversato buona parte della tratta, quando ero quasi alla fine del mio viaggio mi sono fermato a Igoumenitsa e lì ho incontrato Rahell: è stato lui ad avvicinarmi perché mi ha riconosciuto come persona con cui poteva interagire. Tutto è nato da lì.
Ma non subito…
Abbiamo passato insieme i miei ultimi giorni di viaggio in Grecia e mi ha introdotto nella sua comunità, raccontandomi di come lui e molti altri tentassero di scappare infilandosi sotto i camion che partivano dal porto. Con Rahell quindi ho girato un altro documentario: Just About My Fingers, sulla condizione dei rifugiati in Grecia, che ha ricevuto vari riconoscimenti.
Quando e come è stato girato poi Terra di transito?
Nel 2011 ho accumulato 80-90 ore di girato. Andavo spesso in Grecia da lui e a volte gli lasciavo anche la telecamera. Poi ho dato conto del percorso verso l’Italia: è pazzesco pensare che, fuggito dalla Siria, ci abbia messo 15 giorni ad arrivare in Grecia, e poi un anno per spostarsi da lì all’Italia.
Il film è raccontato attraverso la voce di Rahell.
Sì, la narrazione passa attraverso ciò che vedono gli occhi degli stranieri e come vivono il nostro Paese quando vi si trovano a rifugiarsi, per poi scoprire di essere in trappola. Infatti nel film non si parla mai italiano.
Un Paese da cui fuggire.
Infatti. Mi ha colpito e deluso proprio il parallelo tra noi e la Grecia, che è un inferno per i migranti. Oggi l’Italia è una terra da cui fuggire per gli stessi italiani: non è più una questione di origini, ma di generazioni.
Oggi cosa fa Rahell?
Intanto è qui a Bari con me per presentare il film. In generale ha scelto di restare in Italia perché vuole rimanere nella legalità, è in un programma di accoglienza per rifugiati e sta studiando per il diploma di terza media. E poi collabora con me ai miei progetti documentaristici.
Lei, invece, sta già lavorando a un nuovo progetto?
Sì, sarà di nuovo un documentario, ma stavolta sul concetto di ritorno a casa. Partendo dalla mia esperienza di ritorno in Italia dopo anni di vita in Medio Oriente e mettendola in parallelo con il desiderio di ritorno dei rifugiati, spesso impossibile da realizzare.
Il documentario è nato dall’incontro con Rahell o viceversa?
Mi interesso alle sorti dei rifugiati come reporter dal 2008 e quando ho scoperto questa rotta seguita da migliaia di rifugiati, tra Afghanistan e Italia, ho voluto percorrerla. Dopo aver già attraversato buona parte della tratta, quando ero quasi alla fine del mio viaggio mi sono fermato a Igoumenitsa e lì ho incontrato Rahell: è stato lui ad avvicinarmi perché mi ha riconosciuto come persona con cui poteva interagire. Tutto è nato da lì.
Ma non subito…
Abbiamo passato insieme i miei ultimi giorni di viaggio in Grecia e mi ha introdotto nella sua comunità, raccontandomi di come lui e molti altri tentassero di scappare infilandosi sotto i camion che partivano dal porto. Con Rahell quindi ho girato un altro documentario: Just About My Fingers, sulla condizione dei rifugiati in Grecia, che ha ricevuto vari riconoscimenti.
Quando e come è stato girato poi Terra di transito?
Nel 2011 ho accumulato 80-90 ore di girato. Andavo spesso in Grecia da lui e a volte gli lasciavo anche la telecamera. Poi ho dato conto del percorso verso l’Italia: è pazzesco pensare che, fuggito dalla Siria, ci abbia messo 15 giorni ad arrivare in Grecia, e poi un anno per spostarsi da lì all’Italia.
Il film è raccontato attraverso la voce di Rahell.
Sì, la narrazione passa attraverso ciò che vedono gli occhi degli stranieri e come vivono il nostro Paese quando vi si trovano a rifugiarsi, per poi scoprire di essere in trappola. Infatti nel film non si parla mai italiano.
Un Paese da cui fuggire.
Infatti. Mi ha colpito e deluso proprio il parallelo tra noi e la Grecia, che è un inferno per i migranti. Oggi l’Italia è una terra da cui fuggire per gli stessi italiani: non è più una questione di origini, ma di generazioni.
Oggi cosa fa Rahell?
Intanto è qui a Bari con me per presentare il film. In generale ha scelto di restare in Italia perché vuole rimanere nella legalità, è in un programma di accoglienza per rifugiati e sta studiando per il diploma di terza media. E poi collabora con me ai miei progetti documentaristici.
Lei, invece, sta già lavorando a un nuovo progetto?
Sì, sarà di nuovo un documentario, ma stavolta sul concetto di ritorno a casa. Partendo dalla mia esperienza di ritorno in Italia dopo anni di vita in Medio Oriente e mettendola in parallelo con il desiderio di ritorno dei rifugiati, spesso impossibile da realizzare.