Suranga Deshapriya Katugampala: “I pugni in tasca e il cinema post-esotico”

In sala il 30 marzo, dopo aver ottenuto una menzione speciale a Pesaro 52, Per un figlio, l'opera prima del giovane autore italo-srilankese Suranga Deshapriya Katugampala


PESARO – Ha ottenuto una menzione speciale dalla giuria degli studenti di Pesaro 52, guidata da Roberto Andò, Per un figlio, l’opera prima di Suranga Deshapriya Katugampala. Film italiano a tutti gli effetti, coprodotto da Gianluca Arcopinto, diretto da un giovane autore 28enne nato in Sri Lanka, emigrato in Italia con la madre a 8 anni. Laureato in informatica multimediale, da sempre appassionato di cinema, ha diretto vari cortometraggi sperimentali e nel 2013 la webserie Kunatu – Tempeste, un progetto a budget zero in cui narra della sua comunità in Italia.  

Con Per un figlio firma un film rigoroso e drammatico, che coinvolge lo spettatore nella vicenda di Sunita, una donna di mezza età che lavora come badante presso un’anziana nel veronese. A interpretarla Kaushalya Fernando, una delle attrici più popolari in Sri Lanka (La terre abandonnée, Caméra d’Or 2005), unica professionista del cast. L’attrice dà vita al ritratto dolente di una madre che il figlio adolescente rifiuta totalmente, come rifiuta le sue origini cercando di assimilarsi al gruppo degli amici: parla italiano e deride la madre che lo sa parlare male, respinge le tradizioni anche religiose di cui lei è portatrice. Contemporaneamente vive la scoperta del sesso e una tipica ribellione adolescenziale inasprita dal rifiuto delle sue origini. Ma il film si concentra principalmente sulla figura della donna, sulla sua solitudine e sull’impossibilità di un’integrazione negata da entrambe le prospettive, sia da lei stessa che dall’ambiente circostante (tra l’altro l’autore descrive un’Italia decrepita, ripiegata su se stessa, dove si parla quasi solo il dialetto). A Pesaro Suranga è arrivato con un folto gruppo di collaboratori del film, italiani e srilankesi. E il giovane cineasta ama sottolineare l’aspetto collettivo del progetto (vedi anche il suo sito katugampala.com)

Lei sembra ritenere l’integrazione come un processo impossibile.
E’ la parola “integrazione” ad essere profondamente sbagliata. Lo dico in modo provocatorio, ovviamente, ma io non voglio integrarmi. Ho lavorato molto su me stesso, per questo. Non sto dicendo che dobbiamo fare i terroristi, ma dobbiamo conservare la nostra cultura e incontrarci perché altrimenti integrazione è omologazione ai valori occidentali. Sono nato in Sri Lanka, ma vivo in Italia da quando avevo 8 anni e da un anno sono cittadino italiano. Mi considero italiano, anche se lo vivo con un sottile senso di tradimento.

Il film mostra infatti una donna che vive e lavora in Italia ma si porta addosso un senso di totale estraneità. Anche rispetto a suo figlio.
Racconto il conflitto generazionale, in cui due mondi completamente diversi cozzano l’uno contro l’altro. Mentre la generazione dei genitori vive il dramma dell’integrazione, perché ha il cuore altrove e prova un forte disagio, il figlio si sente italiano e cerca quasi di stare dall’altra parte, tanto da arrivare a schiaffeggiare un connazionale.

C’è incomunicabilità assoluta tra questi due mondi.

Sì, e il silenzio la esprime. Ma cerco di parlare della figura materna in senso profondo. Nella mia cultura d’origine la madre è sacra. Se non c’è una statua a cui pregare, si dice: prega tua madre. Ebbene, il figlio ha perso l’inizio di questo rapporto perché la madre era emigrata quando era molto piccolo e adesso cerca in modo infantile il seno materno che non l’ha allattato. Tra le mie fonti d’ispirazione c’è un libro del filosofo Jean-Luc Nancy, “La nascita dei seni”. Il ragazzo cerca il seno nello squallore della prostituzione ma anche nella sua comunità e nell’abbraccio con la madre. Questo lo suggerisco anche col quadro di Carlo Crivelli appeso al muro.

Il lavoro a basso budget è stato per lei una risorsa estetica o una fonte di limitazione?
Lavorare in queste condizioni ti porta a pensare e agire in modo collettivo, non c’è solo una mente che pensa, ma c’è uno scambiare storie che rafforzino il film. Non voglio fare un cinema dei poveri ma certamente prediligo un cinema sociale. I miei riferimenti iniziano da Bresson a arrivano a Ozu e ai Dardenne. Il cinema deve avere un’impronta sociale. Per un figlio è un film orgogliosamente clandestino, spesso girato anche senza permessi, nato dall’urgenza di raccontare. 

Tra i produttori figura anche la Cineteca di Bologna.
Abbiamo vinto il Premio Mutti nel 2015, forse l’unico premio che sostiene un cinema migrante.

L’Italia è ancora agli inizi da questo punto di vista, rispetto a paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna che hanno un cinema migrante ben strutturato nella tradizione locale.
Siamo ben distanti dalla Francia, che valorizza autori come Lav Diaz, Tsai Ming Liang o Apichatpong, però c’è una volontà da parte dei registi italiani di seconda generazione. Se ci fosse più coraggio da parte dello Stato nel sostenere altre forme di cinema che io definisco post esotiche, si potrebbe fare molta strada. Siamo giovani in questo processo e questo è un bene perché possiamo imparare dagli errori degli altri, ad esempio dell’Inghilterra, e fare meglio. 

Ha citato i Dardenne come modello. Ha qualche riferimento tra gli italiani?
I pugni in tasca di Marco Bellocchio mi ha fatto capire tante cose, che si possono raccontare i problemi sociali stando in casa, dentro una famiglia. Sono molto legato a quel film.  

Come ha reagito alla notizia dell’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, assassinato a Fermo per razzismo?

Questo paese è paradossale. Da una parte vuole abbracciare nuove forme di cinema e considera, giustamente, Per un figlio come un film italiano, ma dall’altra è ancora molto razzista, anche per colpa dei media che distorcono la verità e per l’ignoranza coltivata da certi politici. Non dimentichiamo che l’Italia ha forti radici fasciste, anche se do per scontato che c’è una diffusa umanità nelle persone.

E come ha preso la notizia dell’attentato avvenuto a Dacca in Bangladesh in cui hanno perso la vita 28 persone tra cui molti italiani?
Quello che è successo è drammatico, spaventoso, l’abbiamo scritto sul nostro sito internet, ma ci sono anche questioni di causa-effetto. Il terrorismo è inaccettabile, disumano, ma può essere un effetto di comportamenti precedenti. Bisogna riflettere insieme.

Cristiana Paternò
09 Luglio 2016

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