Cristi Puiu: "La verità non esiste"
Partiamo dal titolo del suo film. Perché Sieranevada?
Per la stessa ragione per cui “Delitto e Castigo” non è un romanzo sul delitto e sul castigo, anche se all’interno ci sono un delitto e un castigo, vale lo stesso per “Lo straniero”. Si riferisce al senso di alienazione, ma c’è uno straniero? C’è spesso una discrepanza tra il titolo e il senso del racconto. Vale anche al cinema. Uno dei motivi scatenanti che mi ha portato a realizzare il film è stato il funerale di mio padre, ma non solo questo. C’era anche la volontà di mettere in relazione la mia storia con la grande Storia. E quindi perché Sieranevada? Perché volevo che ci fosse un luogo nel titolo, uno spazio fisico, un posto in cui si è presenti ma qualcun’altro non è più presente. Per esempio con La morte del signor Lazarescu ho parlato di un’azione, con Aurora di un periodo, di un momento, mentre ora volevo parlare di un luogo. In definitiva Sieranevada è un titolo universale, che magari farà passare ai distributori internazionali la voglia di cambiare i titoli dei film.
A proposito di spazio, il film è girato prevalentemente all’interno di un appartamento. In alternativa siamo dentro a un’automobile. Spazi chiusi, asfittici, con porte che si aprono e si chiudono in continuazione. È una metafora? Quanto vede chiusa oggi la società romena post Ceausescu? Partiamo dal fatto che nessuno sfugge da ciò che ha in mente. Ognuno si fa la propria storia. Anche lo spettatore, quando guarda un film, riscrive la propria storia. Io non avevo intenzione di costruire delle metafore. Sono partito dalla topografia dell’appartamento: c’è un bagno, che ovviamente si usa con la porta chiusa. Di là c’è un bambino che dorme e si fa attenzione a non svegliarlo. Un’altra porta chiusa dove avviene una confessione, è ovvio, nessuno vuole far sapere che sei stato tradito. La chiusura delle porte, quindi, è funzionale al racconto, e mentre scrivevo mi chiedevo: e ora cosa farò con tutte queste porte chiuse? Dove devo mettere la macchina da presa? Credo che la lettura in chiave metaforica appartenga alla libera interpretazione dello spettatore, ma non intendevo fare un film sulla società post rivoluzione. Costruire metafore secondo me è da stronzi. Le metafore sono proprietà esclusiva dello spettatore, dei testimoni e non dell’autore. Ci sono autori che giocano con le metafore, ma quello è un terreno traballante, instabile, perché la cosa importante è dove metti la macchina da presa. Tutto il resto è una conseguenza di questa scelta etica.
Nel suo film ci sono molti segreti e bugie. Tutti mentono. E ci sono teorie divergenti sull’11 settembre. Sembra che lei voglia suggerire che la verità non esiste.
Il problema è che noi abbiamo sviluppato l’idea di una realtà oggettiva, ma la realtà oggettiva non esiste. Appena metti insieme due persone, due cervelli diversi che usano la stessa lingua e usano le stesse parole, per avere una conversazione educata e arrivare a una conclusione comune, dovranno adattare le proprie idee sugli argomenti su cui stanno discutendo. Ciò non significa che raggiungeranno la realtà oggettiva, ma creeranno una nuova realtà “di consenso”. L’idea di realtà oggettiva è molto pericolosa perché qualcuno sostiene di conoscerla e usa questo concetto portando delle “prove” solo per conquistare il potere. C’è chi ha utilizzato quest’idea trasformandola in ideologia e la gente ha cominciato ad ammazzarsi per questo. Una verità univoca non esiste, ognuno di noi costruisce le proprie convinzioni a partire dalle informazioni che abbiamo ricevuto. La nostra resta sempre una visione soggettiva.I suoi film hanno una durata importante, siamo intorno alle tre ore.
Per questa ragione un produttore voleva che Sieranevada durasse di meno, avrebbe voluto tagliare la scena di apertura del film. Ma io non penso alla durata quando giro un film. Quando scrivo mi comporto come in una storia d’amore. Non si sa mai quanto durerà.
Io non filmo degli attori che recitano, filmo degli esseri umani, è questo che mi interessa. Per questo non utilizzo attori professionisti. Non credo nel “mestiere” dell’attore. La ragione per cui non abbiamo buoni attori, buoni dottori, buoni insegnanti è perché si crede che basti un diploma per essere legittimati. E quindi non esistono “attori professionisti”. Esiste una missione, che li rivela come esseri umani. Io voglio che loro rivelino se stessi come esseri umani, non che costruiscano personaggi. Poi un regista è come un pescatore, sceglie il posto, la canna, le esche, prepara tutto, ma deve aspettare le cose che succedono, non dipende solo da lui.
Non frequento i miei colleghi, ma quello che considero il migliore è Porumboiu. Credo che, in generale, le cose miglioreranno quando vinceremo il nostro complesso di inferiorità e smetteremo di pensare che siamo dei provinciali.
Com’è arrivato al cinema? Un po’ per caso. Da bambino volevo diventare un pittore come Michelangelo, per me era il Maradona della pittura. A un certo punto, avrò avuto 17 anni, un amico mi ha fatto vedere un film di Bunuel e qualcosa è successo. Non è che mi sono proprio innamorato, ma incuriosito, e ho cominciato a vedere dei film. La decisione di voler fare film risale al 1991 o giù di lì.
Più o meno quando è partito per andare a studiare alla École Supérieure d'Arts Visuels di Ginevra. Cosa ha determinato la svolta? È successo all’improvviso. Avevo un amico con cui ci scambiavamo film, un giorno gli ho prestato la videocassetta di Full Metal Jacket di Kubrick e lui mi ha dato A woman under the influence di Cassavetes. Quando l’ho visto ho pensato: “Ma che roba è questa?? Che fa questo tipo con la macchina da presa?” Guardavo un capolavoro e pensavo che fosse spazzatura. Poi però il giorno dopo mi sono svegliato con questo film in testa. L’ho rivisto e poi rivisto ancora. E allora mi sono detto: “Ecco, questo è ciò che voglio fare!”
Quando sei impegnato nella pittura ragioni in maniera matematica, pensi alle proporzioni, alla composizione, ti sforzi di costruire qualcosa di simmetrico. Era come se, letteralmente, mi sforzassi di fare fotografie in movimento, molto attento alla composizione. Mi interessavo di più a registi come Kurosawa. E invece questo tizio arriva con una macchina da presa che si muove a scossoni, con attori che non recitano ma si comportano come se quella fosse la vita vera… Lui faceva film con le emozioni, più che con il cervello.