Valerio Mastandrea regista ride del dolore

L’8 maggio l'attore romano, che riceve dal Festival del cinema europeo l’Ulivo d’oro alla carriera, comincerà nei dintorni della Capitale le riprese del suo primo lungometraggio, Ride


LECCE. L’8 maggio Valerio Mastandrea comincerà nei dintorni di Roma le riprese del suo primo lungometraggio, Ride, “un film che da tempo volevo realizzare, ma che solo ora ho il coraggio di affrontare”, dice l’attore che riceve dal Festival del cinema europeo l’Ulivo d’oro alla carriera. “A 45 anni un riconoscimento alla carriera fa un po’ pensare. Comunque questo albero ha per me anche un valore simbolico molto forte, l’associo alle lotte di queste settimane in Puglia (la protesta contro il gasdotto, ndr.)”.
Della sua opera prima non rivela il cast, anche se si è parlato di Marco Giallini tra gli interpreti.

Mastandrea che cosa ci può dire di più di Ride?
La protagonista è una ragazza di 30 anni, un film che mi riguarda tantissimo. Un tentativo audace di trattare un tema forte come la perdita in maniera leggera, un film spero piccolo ma potente. Mi sto accorgendo da regista che fare l’attore e partecipare ai casting è l’incubo maggiore che possa capitare. Vorrei che tutti gli attori facessero i loro ruoli come li avrei interpretati io. Ma il passaggio, la delega è comunque un momento bellissimo.

Bellocchio dice di averla scelta in Fai bei sogni per la tristezza che esprime quando fa ridere.
L’ha detto in conferenza a Cannes e io l’ho guardato e lui subito ha aggiunto “Ma no, volevo dire malinconia”.

Lei nel suo prossimo film indagherà proprio questo aspetto?
Forse sono proprio così se cerco nel mio primo film di ridere finché posso di una situazione tanto tragica. Comunque più che una persona triste mi sento uno che fa della malinconia un veicolo, un aspetto seducente.

Deluso di non aver preso il David come Miglior attore protagonista?
No, ne avevo già presi due, sarebbe stato veramente eccessivo. Stefano Accorsi ha meritato il riconoscimento e sono contento per lui. A volte purtroppo siamo sempre gli stessi a vincere. Nei David come Miglior attore non protagonista (vinto per Fiore, ndr.) c’erano due interpreti straordinari come Massimiliano Rossi, Roberto De Francesco e mi è dispiaciuto competere con loro.

Un bilancio della sua carriera, ricca di circa 90 titoli?

Ho fatto sempre quello che mi andava di fare. Ho sbagliato moltissimi film, non perché siano andati male al botteghino, sbagliati soprattutto quelli che ho affrontato prima come attore poi come persona, li ho sempre toppati. Ora cerco di non perdere la curiosità perché dopo anni di lavoro c’è il rischio della routine. La bellezza di questo mestiere è l’immersione dentro il proprio bacino emotivo, altrimenti si perde il principio attivo di questa medicina quale il cinema, che non deve essere un farmaco scaduto.

Set o palcoscenico, che preferisce?
Il mio mestiere è uno solo e ha vari contesti in cui si esprime. Fare teatro mi aiuta tantissimo nei momenti di sconforto creativo, il teatro è un live, un concerto. Ho ripreso ora un monologo che portai in scena trent’anni fa, con più testa e meno cuore rispetto ad allora, ed è venuto diverso.

A quale personaggio interpretato al cinema è più affezionato?
Sono molto legato a Stefano Nardini, personaggio principale di Non pensarci di Gianni Zanasi. E’ un caro vecchio amico che ogni tanto risbuca nella nostra vita, rappresenta un carattere nel quale io e Gianni ci riconosciamo.

In Italia un settore che stenta a crescere è quello dello sviluppo e della ricerca delle storie, come si rapporta con questa difficoltà?
Cercando di coinvolgere, come accade nella Scuola Volonté di cui faccio parte, ragazzi a cui piace scrivere e non lo sanno fare e soprattutto non trovano le porte aperte di alcune realtà produttive. Non ci sono soggettisti in Italia, ma da 30 anni. In America c’è invece una catena perfetta, dalla creazione alla realizzazione e questa è un’industria sana dal punto di vista artistico. Ricordo che Nanni Moretti fece un concorso di soggetti, io ne lessi alcuni.

Nella sua intensa carriera come attore, pochi sono i film internazionali, una caratteristica che è di tanti altri suoi colleghi italiani altrettanto bravi. Come mai?
Sinceramente, guardandomi, secondo lei ho cercato uno sbocco internazionale, immaginando anche le fobie che uno possa avere affrontando questa nuova realtà? Io sono l’ultimo attore della mia generazione capace di lavorare con gli americani, non per la lingua. Quando ero sul set di Nine, e mi sono trovato bene, ho capito però una cosa, che dopo l’azione il mestiere è uguale per tutti, ma prima dell’azione è molto differente. Per il tipo di attore che sono, per come intendo questo lavoro, non c’è posto per me in una fabbrica di mostri di tale bravura. Non ho mai visto i tre film internazionali che ho interpretato, non ce l’ho mai fatta, mi sono solo doppiato in italiano. Non ho mai trovato difficoltà ad andare di là perché non mi va e quando mi capita… faccio un esempio per capirsi.
Spike Lee è il regista grazie al quale io vado al cinema, Fa’ la cosa giusta mi ha cambiato la prospettiva. Ho voluto fare il provino per il suo film girato in Italia, Miracolo a Sant’Anna. Una volta terminato, lui mi disse “Adesso però alza la voce, perché la rabbia deve venire fuori. E io gli rispondo “No, il personaggio lo vedo così, che si porta la rabbia dentro”. Spike Lee mi guarda sconvolto come a dire “Ma questo che vuole? Come si permette?”. E poi una faccia del romano che dice “Beh fa’ come te pare”. Poi il film l’ha fatto Pier Francesco Favino, uno capace di fare qualsiasi cosa.

Lecce 2017

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