Annarita Zambrano: “Siamo tutti ostaggio della violenza”

L'opera prima della regista, in sala dal 3 maggio, racconta la stagione del terrorismo da un punto di vista inedito, quelle dei familiari di un ideologo


 “Siamo stati tutti ostaggio della violenza. Un’intera generazione è stata presa in ostaggio”. Così Annarita Zambrano spiega l’urgenza di un film come Dopo la guerra, suo primo lungometraggio, a Cannes in Un Certain Regard e in sala dal 3 maggio con I Wonder Pictures. Un film in bilico tra due paesi, l’Italia e la Francia, che racconta la stagione del terrorismo da una prospettiva per molti versi inedita e con echi di tragedia greca. La Francia, che ha dato asilo a molti terroristi e fiancheggiatori espatriati durante gli anni di piombo, grazie alla cosiddetta dottrina Mitterrand, al principio degli anni 2000, all’indomani dell’omicidio di Marco Biagi, rimescola le carte accettando di concedere l’estradizione. E’ la base storica per una vicenda di fantasia, quella di Marco (Giuseppe Battiston), un ideologo condannato per omicidio, che oltralpe si è rifatto una vita. Ora viene sospettato di essere il mandante dell’uccisione di un giuslavorista e si dà alla macchia insieme alla figlia adolescente Viola (Charlotte Cétaire). Intanto a Bologna la famiglia d’origine di Marco è oggetto di minacce continue: sua madre, sua sorella (Barbora Boboluva) che per vent’anni non ha più voluto aver nulla a che fare con lui, persino il marito di lei, un magistrato di sinistra, devono affrontare una colpa che torna dal passato con prepotenza. Il film è stato prodotto in Francia, con un budget di circa 3 milioni, con il sostegno della Fondazione Gan e poi ha trovato una coproduzione italiana con Movimento Film e I Wonder Pictures. Nel cast anche Fabrizio Ferracane, Elisabetta Piccolomini, Marilyne Canto e Jean-Marc Barr. 

Considera Dopo la guerra più un film politico o una vicenda privata, che mostra le ricadute personali di una scelta politica sui familiari dei terroristi?
E’ un film che parte da uno sfondo politico ma poi parla dell’umano, una piccola storia che inciampa nella grande Storia. Privata ma anche pubblica. 

Per l’Italia il terrorismo brigatista è una ferita ancora aperta.
Occorre riaprire una riflessione su quella stagione. Un colpevole è sempre colpevole, ma il nostro paese ha lasciato insoluta la questione, senza mai risolverla, e queste persone, da parte loro, non hanno mai affrontato le proprie responsabilità. La stessa dottrina Mitterrand è stata una cosa ambigua, non era una legge ma una promessa verbale, che infatti è stata rimessa in discussione nel 2002, con condizioni geopolitiche profondamente mutate, quando il presidente Chirac decise di collaborare con l’Italia che chiedeva l’estradizione degli ex terroristi. Cosa si doveva fare? Il film non dà risposte giuridiche, ma si propone come riflessione sulla colpa, umana e politica, sulla ragion di Stato di fronte alla ragione umana. Il carico della colpa che ricade su chi resta è una costante non solo della cultura classica ma anche di quella cattolica, e permea molti italiani, me compresa.

Si è ispirata a qualche figura reale, magari al caso di Cesare Battisti?

No, non ho raccontato direttamente nessun personaggio storico, anche se ci sono certamente riferimenti a tanti. Ho letto molto, ho conosciuto alcuni rifugiati, ma il gioco dell’identificazione si ferma prima perché Marco non esiste, è un personaggio di fantasia

Lei era molto piccola ai tempi delle Br. Cosa ricorda di quegli anni? Perché le interessano tanto?
Sì, quando uccisero Aldo Moro avevo sei anni. Sono stata vittima degli anni di piombo in modo collaterale. Capivamo e non capivamo, ma ricordo che i miei genitori mi dicevano di fare attenzione, come anche alle siringhe per via dell’eroina. Quando ho cominciato anni dopo, a vent’anni, a capire, era stato già tutto combattuto. Molti mi hanno detto: “Perché si occupa di questo argomento? Perché vuole fare questo film? Che ne sa? Non sono nessuno, ecco perché racconto questi fatti. Non ho una spiegazione del terrorismo ma penso sia importante cercare di capire. 

Nella prima scena del film vediamo gli studenti dell’università protestare contro la riforma del lavoro e l’abolizione dell’articolo 18. E’ un’esplosione di protesta che poco dopo sarà ammutolita dall’irruzione della violenza. Tutta la sinistra ha pagato a caro prezzo i delitti dei terroristi rossi. 
Non ho voluto flashback nel film, ma quella scena è come una reminiscenza. Quegli studenti saranno presi in ostaggio dalla violenza, perché passerà l’equazione che contestare vuol dire uccidere. Un’intera generazione è stata presa in ostaggio. 

Qual il nesso tra questo film e i suoi lavori precedenti come cortista?
Il tema della famiglia e delle ferite familiari. Il rapporto ambivalente tra un padre ingombrante e una figlia che cerca la sua strada. Sono i miei temi ricorrenti.

Come ha scelto i due protagonisti, Giuseppe Battiston e Charlotte Cétaire?

Charlotte mi ha colpito per i suoi silenzi, un attore deve saper recitare anche quando sta zitto. E’ una ballerina ed è molto libera, ribelle e adorabile, non vuole far carriera come attrice. Battiston è un anti romantico, volevo andare contro la fascinazione del terrorista alla Che Guevara. Questo è un uomo che ricorda Orson Welles con una stazza che occupa tutto lo spazio, lo spazio fisico e mentale della figlia Viola. E poi Battiston viene dal teatro tragico, anche se il cinema italiano lo usa per le commedie brillanti. 

Lei vive a Parigi, c’è un corto circuito tra il terrorismo degli anni ’70 e quello islamico che oggi insanguina le piazze?
Abito a Parigi nella strada del Bataclan ed è stato un trauma per noi tutti. E’ grave quando la violenza si banalizza, quando diventa normale. Noi ci stiamo svegliando dalla nostra società chiusa, sentiamo la guerra che ci minaccia. Credo che i francesi stiano affrontando il terrorismo nel modo migliore, non rinunciano ad uscire di casa, a vivere. 

Il film ha due anime, una italiana e una francese. Un po’ come lei. Come si pone rispetto al cinema italiano lavorando in Francia?

Ho iniziato a fare i miei primi film in Francia, ma il mio primo lungometraggio è italiano. Un regista senza il suo paese ha la metà delle idee e delle cose da raccontare, non puoi sradicare un artista, sarebbe una menomazione. Voglio fare film in Italia. Ma al contempo devo moltissimo alla Francia: mi ha insegnato a non chiedere l’elemosina, ad avere dignità come autore, a lavorare meglio degli altri per competere con i francesi. Anche come donna è necessario fare più fatica. Avete notato che sono l’unica donna, tra i registi italiani qui a Cannes? 

Cristiana Paternò
23 Maggio 2017

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