Fulvio Baglivi: “Carmelo Bene, anarchia e metodo”

Alla Mostra di Pesaro le undici ore e mezza dei rushes di Nostra signora dei turchi, ritrovati dal cineasta nel 2008 e riproposte come installazione


PESARO – Undici ore e mezza di girato in bianco e nero, controtipo (negativo ricavato da positivo) stampato per le lavorazioni, depotenziate dai colori saturi della pellicola Ektachrome; mute, senza la stratificazione sonora e la voce guida di Carmelo Bene. Sono le rushes di Nostra signora dei turchi di cui la Mostra di Pesaro ha fatto un evento unico in occasione dei 50 anni del film di Carmelo Bene, Premio speciale della giuria presieduta da Guido Piovene alla Mostra di Venezia, ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade, in piena contestazione e con un ricco corredo di aneddoti: addirittura il cronista di punta della Rai, Carlo Mazzarella, prese uno schiaffo – non si sa bene se dallo stesso regista oppure dalla sua attrice e musa Lydia Mancinelli – per aver parlato male dell’opera.

Le rushes, rinvenute tra i materiali della Microstampa depositati presso la Cineteca Nazionale (partner del festival di Pesaro con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia) sono diventate un’installazione al Centro arti visive la Pescheria. E’ possibile sedersi lì e lasciarsi andare al flusso visivo, nudo e crudo, senza suoni. Il corpo di Carmelo Bene, svestito, spesso ferito, febbricitante e contorto, quasi un’ostensione dell’atto creativo di quel genio tra teatro, letteratura e gesto provocatorio. Un’immersione filologica che decostruisce il metodo di questo artista ineguagliabile, “cosa impossibile di fronte ai suoi film che continuano a lasciare tramortito e senza fiato chi ci si accosta”, come osserva Fulvio Baglivi che ha curato l’intera operazione. 

Seguendo un collegamento ambivalente e poi profetico della vicenda della strage degli 800 martiri a Otranto ad opera dei turchi, Carmelo Bene, nei panni di un uomo pugliese, ripercorre un suo cammino interiore. La sua filosofia, che viene spiegata nel monologo fuori campo che accompagna il film, consiste nel manifestare il proprio essere interiore distrutto e deturpato in una continua invettiva e confronto con figure femminili, sante o puttane, con echi delle tradizioni del Meridione d’Italia. Mario Masini, dop del film, racconta di quella esperienza come di un bagno di libertà assoluta. E ne abbiamo conferma da Baglivi, autore di Fuoriorario e collaboratore della Cineteca Nazionale, oltre che filmaker, che abbiamo intervistato per Cinecittà News.

Come e quando ha ritrovato le rushes di Nostra signora dei turchi?

Le ho trovate dieci anni fa, lavorando in Cineteca, nel fondo della Microstampa, quello specializzato nel 16mm. Era materiale di scarto, non vi dico in che condizioni, in scatole arrugginite. Il film fu girato in Ektachrome 16mm invertibile a colori. La pellicola invertibile deve subire un primo sviluppo, una leggera e controllatissima esposizione alla luce (sempre in laboratorio) e un secondo sviluppo. Il risultato finale è un film positivo, non negativo come per tutte le altre pellicole. Per questo i giornalieri per la lavorazione, che venivano usati anche in moviola, restavano in b/n che costava meno. Poi si passava al colore, e la pellicola veniva gonfiate a 35 mm. l’Ektachrome ha blu e rossi che il 35mm di quel periodo non ha. Le rushes non sono un inedito, vennero presentate al Festival di Torino nel 2009, ma sono comunque poco conosciute e meritano di essere studiate o anche solo viste.

Del film ci sono due versioni, qual è il director’s cut?

Entrambe vennero decise dallo stesso regista. La versione presentata a Venezia durava 125′ rispetto a una prima versione di 142’. Fu Chiarini a chiedere a Bene di ridurre la durata. Per togliere questi 17′ Bene fece tanti piccoli tagli chirurgici, poi tolse anche intere scene, come quella in cui si sdoppia in frate. 

Qual è il valore storico e filologico delle rushes?

Oltre alla mia personale perversione di vedere e rivedere queste undici ore di girato, credo che aiutino ad avere un rapporto più diretto con il metodo di Bene, che costruisce distruggendo. E’ difficile che ci siano più ciak di una stessa scena, sono tutte singole scene e non ci sono sequenze lunghe o piani sequenza. Bene spezzetta, taglia. Nel successivo Salomé, del 1972, ci sono più di mille tagli. Vedere le rushes permette di studiare da vicino il suo modo di lavorare. Quando guardiamo il film finito, siamo storditi dalla pioggia di suoni, dalla la sua voce, dalla musica, che sono più di metà dell’opera.

Nostra signora dei turchi ha una storia produttiva unica nel contesto del cinema italiano.

E’ un film girato dentro casa sua, nel Salento, nella casa di famiglia dove era nato e cresciuto, in un set caotico, piccolo ma anche barocco, coloratissimo. E’ girato con la sua compagna Lydia Mancinelli, il dop Mario Masini, la compagna di Masini. E’ un film contro il ’68 della contestazione giovanile, rivoluzionario nel suo modo di approcciarsi alla vita, al cinema. Carmelo Bene è presente in ogni scena e prova a distruggere il suo corpo. È ferito, bruciato, fasciato, gioca col fuoco. Coltiva un istinto di morte, ma non riesce mai a morire. Ma allo stesso tempo esprime il suo amore per Buster Keaton, per il cinema comico delle origini, per la gag.

Ci sono ingredienti ancestrali, gli elementi come l’acqua e il fuoco, il mare, la terra, richiami al paesaggio del Salento.

Sì, abbondano la terra infuocata, il mare. Bene è naufrago, martire e santo in un gioco spericolato.

Un modo di fare cinema irripetibile o c’è qualche erede?

Non c’è un erede di Bene, non sarebbe neanche possibile. Si avvicinano a lui Ciprì e Maresco. Del resto Carmelo diceva che del cinema del Novecento avrebbe salvato solo Lo zio di Brooklyn. Non tiene conto delle mode del cinema, della storia del cinema. Non tiene conto delle regole, è totalmente anarchico. Gira in posti impossibili, con inquadrature impossibili.

Cosa resta oggi di Carmelo Bene nella cultura cinematografica?

È museificato, certamente fa parte dei grandissimi, ma alla fine non si ha il coraggio di offrirlo, e questo vale anche per Rossellini, persino per Fellini, i cui film non si vedono mai. La sua cosa più nota è l’autobiografia scritta con Giancarlo Dotto e i frammenti delle sue apparizioni al Maurizio Costanzo Show. Per capirlo devi studiare il barocco, Deleuze, Nietzsche. Ma si arriva a lui anche attraverso il calcio.

Cristiana Paternò
19 Giugno 2018

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