Roberta Torre, immaginazione e concretezza

Alla Mostra di Pesaro, che ha dedicato l'evento speciale a cinema e donne, abbiamo intervistato la regista milanese


PESARO – A conclusione di un’edizione dedicata alla presenza delle autrici nel nostro cinema, Pesaro 54 ha organizzato la classica tavola rotonda attorno al volume We Want Cinema – Sguardi di donne nel cinema italiano, curato da Laura Buffoni per Marsilio. Un’occasione per parlare a 360° dell’argomento, con i dati delle ricerche Dea che restituiscono la misura dello svantaggio femminile sia in termini di percentuali di registe e sceneggiatrici sia – e forse soprattutto – per la consistenza dei progetti, spesso a basso budget. Tra gli interventi Sonia Bergamasco, Laura Buffoni, Paola Casella, Giada Colagrande, Antonietta De Lillo, Ilaria Fraioli, Patrizia Pistagnesi e Roberta Torre.

E proprio con la regista milanese, che quest’anno ha ottenuto cinque candidature ai David di Donatello e ne ha vinto uno per i costumi, con il musical scespiriano Riccardo va all’inferno, interpretato da Massimo Ranieri e Sonia Bergamasco, abbiamo approfondito alcuni temi del dibattito e ripercorso alcuni momenti chiave della sua carriera, iniziata con l’exploit di Tano da morire nel 1997. 

Qui a Pesaro si parla in modo organico, grazie a un bel volume sia teorico che storico, del cinema delle donne in Italia. Un tema complesso e che solleva molte domande, oggi diventato d’attualità attraverso il movimento #MeToo. Cosa possiamo aspettarci da questa rivoluzione?

Bisogna capire il momento storico presente, un momento importante per la questione femminile. Quello che è successo dal caso Weinstein in poi sta cambiando alcune cose. Non si tratta tanto di essere a favore o contro la categorizzazione della donna come specie protetta, credo piuttosto che sia importante approfittare di quello che sta succedendo, dell’attenzione che si è accesa, per rivendicare dei diritti, che non sono affatto pretese. Lavorerei sulla concretezza, perché l’astrazione è impalpabile e aleatoria, mentre sul piano pratico ci sono delle richieste precise da fare, come avvenuto in Francia e come sta accadendo in America. Parliamo di salari, di finanziamenti, di quote all’interno dei festival, di giurie presiedute da una donna, di giornali diretti da donne. Altrimenti finiamo per ripetere sempre le stesse cose.

A che punto è arrivata nella sua carriera?

Non ho una visione lineare della carriera, non credo che proceda per tappe classiche o come in un’azienda. Penso di aver attraversato degli immaginari. E’ stato importante il Sud, la Sicilia, e quella è una fase che ho chiuso in maniera naturale e definitiva. Adesso mi trovo altrove. Cerco sempre di fare qualcosa che mi assomigli completamente. A volte capita di fare dei compromessi, può essere positivo se lo sai, negativo se ti allontana dalla tua vocazione.

Credo che il suo stile, il suo immaginario, il suo modo di fare cinema non sempre siano stati compresi pienamente dalla critica, ma Riccardo va all’inferno ha indubbiamente rappresentato un cambiamento forte, è stato accolto molto bene, è stato capito.

Mi sono stupita io stessa, perché ritenevo che fosse un film complesso con codici lontani dal cinema italiano contemporaneo, invece ho avuto grandissime soddisfazioni critiche. Compito della critica è fare un lavoro di dialettica con il regista, perché mettere i voti e le stelline non giova a nessuno. I baci mai dati, nel 2011, l’ultimo film prima di Riccardo, mi aveva dato un’altra percezione della critica italiana, mentre all’estero avevo avuto grandi gioie, ad esempio dal Sundance. Con Riccardo mi sono riavvicinata ad alcuni critici italiani.

In quei sei anni, tra I baci e Riccardo, si è dedicata al teatro e si è presa una sorta di vacanza dal cinema.

Dopo I baci mai dati ho voluto lavorare su altro. Intanto perché per me era un momento di passaggio da un immaginario legato alla Sicilia, un mondo che si era esaurito dentro di me: e per andare altrove sono andata a teatro. Ho fatto Insanamente Riccardo che poi mi ha dato la voglia di lavorare ancora sul Riccardo III: è un lavoro che riconosco vicino al mio immaginario profondo e questo mi ha nutrito tanto.

Anche il film su Riccardo III si nutre di teatro e ha una messinscena molto forte, a tratti quasi ritualizzata.

Ho lavorato sull’astrazione. Il Tiburtino III, per esempio, l’avevo esplorato con i documentari, ma qui resta solo un nome. Ho voluto lavorare sulle maschere, il personaggio della Regina Madre a teatro non c’era e mi sono divertita molto a inventare sul piano fisiognomico. L’avevo fatto anche con Aida dove un performer maschio era circondato di volpi mascherate. È una strada che esplorerò ancora.

Dopo Tano da morire e Sud Side Stori con Angela e specialmente con Mare nero, lei ha virato decisamente verso il noir. Come mai?

Credo che la mia vocazione sia la frontiera, il cercare di andare oltre. Ho una creatività che ha bisogno di essere pionieristica, altrimenti mi annoio facilmente, rischio di cadere nel già visto. Sono sempre pronta a rimettermi in gioco rielaborando quello che ho scoperto.

Il progetto di film su suo nonno Pierluigi Torre, inventore della Lambretta e della rosa blu, ora è diventato un libro. Ha rinunciato all’idea del film?

Non è detto che il film non si faccia. È la storia della vita di un uomo straordinario, un genio, mio nonno, e racconta un periodo storico insidioso, entra nelle pieghe oscure del Novecento, il fascismo, il nazismo. Non l’ho accantonato anche perché è la storia della mia famiglia, quindi non potrei mai separarmene.

Ha avuto qualche delusione nel suo percorso?

Mare nero del 2006 è un film che ha avuto un esito strano, una serie di traversie, produttive e non. Eppure quando l’ho rivisto in America, in occasione di una mia personale all’università di Bloomington, ho pensato che non era per niente male. Lo Cascio era un ispettore dalla psiche nera in una storia sul desiderio e la mancanza. E poi c’era una colonna sonora straordinaria di Shigeru Umebayashi, autore delle musiche anche di In the mood for love, una colonna sonora che non fu mai neanche nominata.

Capita spesso che un autore italiano sia poco compreso in patria, ma accolto benissimo all’estero. Guadagnino è il caso più eclatante in questo senso. Perché secondo lei?

Ci sono dei codici comuni alla visione italiana, siamo ancora intrappolati in una sorta di idealizzazione romantica del neorealismo, una gabbia da cui non si riesce ad uscire. Il neorealismo aveva delle radici storiche che non sono riproducibili in eterno. Fermo restando che adoro il documentario, e ci ho anche lavorato molto, questo non significa che tutto ciò che è realista sia valido e tutto ciò che se ne discosta sia da buttare, invece l’Italia vive su questo equivoco. Bisogna aprirsi a degli immaginari diversi. Fuori lo fanno con film come The Shape of Water. Anche l’italiano, alla fine, da provinciale, si adegua, ma solo dopo.

Direi che la critica ha delle responsabilità in questo senso.

Sì, a questo contribuiscono alcuni critici italiani molto settari, che stabiliscono quello che si può fare e quello non si può fare.

Non le interessa fare televisione?

Finora non mi è ancora capitato, anche se al momento sto lavorando con un autore televisivo su un progetto di film probabilmente per la televisione. In passato avevo scritto una sceneggiatura per un film tv che avrebbero dovuto produrre Ficarra e Picone sulla storia di uno chef palermitano, Filippo La Mantia.

Cristiana Paternò
26 Giugno 2018

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