Paolo Virzì: “Irriverente con i miei padri”

Un omaggio al cinema dei padri, ma anche un regolamento di conti in forma ironica e affettuosa, quasi come in un fumetto: è Notti magiche, il nuovo film di Paolo Virzì, chiusura della Festa di Roma


Un omaggio al cinema dei padri, ma anche un regolamento di conti in forma ironica e affettuosa, quasi come in un fumetto: è Notti magiche, il nuovo film di Paolo Virzì, chiusura della Festa di Roma e in sala dall’8 novembre con 01 Distribution. Scritto con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, attinge al vasto repertorio di memorie del terzetto per raccontare la perdita dell’innocenza di un trio di aspiranti cinematografari, finalisti del Solinas che nella notte della semifinale dei Mondiali del ’90, quando l’Italia viene battuta ai rigori dall’Argentina, finiscono in commissariato, sospettati della morte di un noto produttore ripescato dalle acque del Tevere dove è caduto con la sua Maserati. La commedia si fa amara nel rappresentare il mondo del cinema, amato/odiato: un mondo maschilista e autoreferenziale, come anche un po’ il film, dove mostri sacri quali Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, De Concini, Scola, Antonioni e persino Federico Fellini, intercettato sul set del suo ultimo film, si intrecciano con produttori cialtroni e fraudolenti, sceneggiatori a caccia di idee come vampiri, attori stupratori, divette pronte a tutto. Nel ruolo dei tre giovani protagonisti – lo sciupafemmine toscano, superficiale e ciarliero, il siciliano pomposo e accademico, la ragazza di buona famiglia un po’ repressa – troviamo Giovanni Toscano, Mauro Lamantia e Irene Vetere, alla testa di un cast da capogiro. Giancarlo Giannini è il produttore imbroglione, Marina Rocco la sua fidanzata, e poi ci sono Jalil Lespert, Roberto Herlitzka, Ferruccio Soleri, Ludovica Modugno, Paolo Bonacelli, Andrea Roncato, Ornella Muti… Come dice Francesca Archibugi, “è un racconto forse più per chi non c’era, perché a chi c’era può risultare un po’ indigesto e faticoso”. Il film è prodotto da Marco Belardi (Lotus) con Leone Film Group e Rai Cinema in associazione con 3 Marys Entertainment. 

Virzì, perché questo film dal sapore autobiografico? E perché proprio adesso?

E’ una stagione che mi era rimasta dentro e tornava a ossessionarmi in sogni, racconti, aneddoti. Ce l’avevo nel cassetto da tempo, si intitolava “Il grande cinema italiano”, sottotitolo Italia ‘90. Sulla base di questo scartafaccio di appunti e ritrattini e disegni, ci siamo messi al lavoro insieme a Francesca Archibugi e Francesco Piccolo. Ne è venuto fuori un film su cosa voglia dire narrare, guardare la vita e trasformarla in un film. Capisco che venga spontaneo usare la parola “autobiografico”, ma è normale e si fa sempre, si prendono cose che si conoscono e si trasformano in qualcos’altro. Ci sono pezzetti della nostra vita, ma c’è anche il disegno romanzesco di una grande galleria di personaggi, una cornice narrativa da giallo per raccontare la stagione delle illusioni, la seduzione potente che suscitava avvicinarsi alla corte dei grandi maestri.  

Un modo per uccidere i padri?

Anche loro, i padri, si confrontavano con le critiche, so quanto dissimulassero un sentimento di sofferenza rispetto ai commentatori che li ritenevano meno nobili perché facevano commedie, accusandoli di “bozzettismo”. Avendo avuto il privilegio di entrare nella corte del cinema italiano, di visitare le case di produzione e stazionare nelle trattorie dove si battibeccava su tutto, scoprii mille trappole e raggiri. Ho deciso di fare questo film il giorno in cui abbiamo salutato per l’ultima volta Ettore Scola, avevo voglia di dire grazie ma anche di prenderli in giro. Del resto mi hanno insegnato loro ad essere irriverente. 

Scrivendo dell’Italia di allora ha fatto un confronto con l’Italia di oggi?

La Roma del ’90 era caotica, pruriginosa, piena di cose pericolose, Piazza del Popolo era un gigantesco parcheggio, il Colosseo era nero di fuliggine. Roma era sporca e corrotta, ma per me, arrivato nell’85 per fare il Centro Sperimentale, meravigliosa. Osservo la Capitale da 33 anni e ho assistito a tutti i mutamenti delle ultime stagioni sociali e politiche. Per un certo periodo ho visto Roma migliorare, sono arrivati i soldi del Giubileo, le ZTL, le facciate ridipinte tutte color gelato alla crema. Infine quest’ultima stagione che non so paragonare al passato, in cui prevale l’incuria, il degrado arrogante, frutto di rancore. Il nostro era un paese da criticare – la classe dirigente a cui accenniamo nel film non fa certo bella figura – ma lo spirito critico di allora era diverso rispetto allo sgomento di oggi, alla ferocia di oggi, al disprezzo che sembra prevalere.

Notti magiche si muove tra l’omaggio e la satira.

Non è un’elegia. Ci siamo presi la libertà di canzonare la grande storia del nostro cinema. All’epoca scoprimmo la stanchezza, il disincanto, la disperazione, la volgarità di questi maestri inarrivabili. Era un girone infernale ma ci piaceva. Ne avrei ancora tanti di aneddoti: ricordo Dino Risi che si divertiva a massacrare tutto quello che amavo, a dire che erano tutti stronzi e froci. Ricordo Sergio Leone che mi impediva di mangiare la sua frutta secca quando andavo a scrivere per lui nella sua villa dove i cani feroci mi inseguivano. Incontrare i nostri miti voleva dire scoprirne la vanità. 

Si vede anche il maschilismo bieco di quell’ambiente.

Sì, le modalità sono quelle di un paese arretrato, maschilista. E il cinema era molto maschile e maschilista, le poche femmine si mascolinizzavano, l’avvocatessa si esprimeva a parolacce per essere ben accetta. Mi fa piacere averlo scritto con la prima regista italiana che andò sul set con la gonna, ovvero Francesca Archibugi. Oggi il nostro cinema non è più solo maschile, anche se siamo un paese con un grande squilibrio tra i sessi e un accesso delle donne al lavoro molto basso. 

Perché alcuni personaggi sono chiamati col loro nome e altri no?

Laddove li guardiamo da lontano, come Monicelli, Scola e Scarpelli, il nome è conservato; dove invece ci avviciniamo di più i nomi sono cambiati perché ci volevamo sentire liberi.

Perché avete scelto la notte dei mondiali?

Perché è un evento che riguarda tutta l’Italia. Questo è un film sul cinema ma anche sull’arte del raccontare. È interessante notare che mentre avviene qualcosa di rilevante, qualcuno guarda qualcos’altro. Un’auto di lusso vola dal Ponte Garibaldi nel Tevere, ma tutti sono concentrati sul rigore sbagliato.

Nel film c’è anche un omaggio a Fellini, mostrato sul set del suo ultimo film La voce della luna.

Uno dei motivi per cui ho scelto il ’90 è che è l’anno dell’ultimo film del maestro. Quando ho chiesto a Benigni il permesso di usare la sua voce, ci ha rivelato che l’ultima inquadratura era davvero l’ultima scena del film. In questo viaggio pieno di ritratti spaventosi, di Dracula che succhiano il sangue, di personaggi simili al Gatto e la Volpe, di soubrette soggiogate dal loro padre padrone, c’è anche un momento di incanto, in cui abbiamo lasciato parlare Fellini.

Come commenta i dati del botteghino con una quota di mercato per il cinema italiano che sta toccando minimi storici? Il film italiano più visto da agosto è Una storia senza nome di Roberto Andò con 700mila euro di incasso.

Quando sbarcai a Roma nel 1985 si diceva che il cinema italiano era morto. Non era ancora emersa una stagione di giovani autori che arriverà qualche anno dopo con Mazzacurati, Luchetti, Francesca Archibugi, in sala c’erano prevalentemente film stranieri. La morte e la resurrezione del cinema italiano hanno accompagnato la nostra vita. Rispetto all’85, dove cominciare il mestiere voleva dire entrare nelle grazie di un grande maestro, in questo momento tutto è più dinamico, vedo tanti giovani interessanti, per esempio i Fratelli D’innocenzo, ci sono tanti esordi, cosa che allora non era possibile. E poi adesso il cinema lo si guarda dappertutto, anche sul telefonino, non più solo in sala.

Cristiana Paternò
27 Ottobre 2018

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