Douglas Trumbull: “Con Kubrick, lo sperimentatore”

Alla 18esima edizione del rinato Science + Fiction Festival, Trumbull ritira il Premio Urania alla carriera, accompagnato da Grégory Wallet, che ha presentato in anteprima italiana il suo documentario


TRIESTE – Basta soffermarsi su un paio di titoli della sua filmografia per coglierne la grandezza: Douglas Trumbull, l’uomo che ha saputo immaginare il futuro, visionario mago degli effetti speciali il cui contributo è stato fondamentale nella creazione di 2001: Odissea nello spazio e di altri titoli seminali del genere fantastico come Blade Runner, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Star Trek, fino ai più recenti viaggi filosofici di Terrence Malick The Tree of Life e Voyage of Time. Artista visivo, scienziato e inventore, a lui si deve la messa a punto della Slit-scan Machine che è servita a realizzare la sequenza del “Trip” oltre l’infinito, ma al suo attivo conta una prolifica carriera anche come regista, produttore, sceneggiatore. Oltre ad aver trasformato in immagini le fantasie di alcuni dei più grandi cineasti della storia del cinema, nel 1972 ha voluto provare a sedere dietro alla macchina da presa firmando la regia di 2002: la seconda odissea. Quella stessa estate, a Trieste, gli fu assegnato l’Asteroide d’oro alla decima edizione dello storico festival di fantascienza. E nella stessa città, 46 anni dopo, alla 18esima edizione del rinato Science + Fiction Festival, Trumbull ritira il Premio Urania alla carriera, accompagnato da Grégory Wallet, che ha presentato in anteprima italiana il suo documentario Trumbull Land.

Mr. Trumbull, com’è cominciato tutto? Quando si è avvicinato alla settima arte?

Il cinema mi scorre nelle vene, mio padre ha lavorato a Il mago di Oz prima ancora che io nascessi. Poi sono stato un giovane artista appassionatissimo di fantascienza. Il mio portfolio era sempre pieno di macchine volanti e astronavi, questo mi ha permesso di ottenere un lavoro per la Graphic Films di Los Angeles, che all’epoca realizzava film per conto della Nasa. Ne girai uno che si intitolava To the Moon and Beyond, commissionato in occasione della Fiera di New York del 1963, proprio in occasione del lancio delle missioni “Apollo”. Stanley Kubrick vide il film e scritturò la Graphic Film per la realizzazione degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio. È così che ho cominciato.

Lavorare con Kubrick è stato “difficile” come si può immaginare?

Era terribilmente esigente, un tipo geniale e molto preciso. Sapeva esattamente cosa voleva e richiedeva un livello di qualità altissimo. Lavorare con lui, per me, è stata una grande lezione. Ma se la domanda riguarda invece le leggende che si sentono in giro sul carattere “difficile” di Kubrick, dipinto spesso come un “anti-sociale” che voleva stare lontano da tutti, rispondo che non è vero. In realtà era una persona molto amichevole che rendeva l’atmosfera sul set estremamente familiare. Ciò che evitava, piuttosto, era di socializzare all’interno dell’industria cinematografica. Voleva essere indipendente. Ed è per questo che ha lasciato gli Stati Uniti per trasferirsi in Gran Bretagna. Perché voleva essere lasciato libero di lavorare in pace con il suo team.

È complicato riuscire a immaginare il processo creativo che permette a un’idea, la visione di un regista, di trasformarsi in qualcosa di realmente visibile. Un’immagine che da astratta diventa verosimile. Come avviene questa magia?

Sembra una magia, ma è un processo molto metodico. Guardando un film non ci si accorge di tutto il lavoro che si nasconde dietro le quinte: pianificare ogni singola scena, illustrare la sceneggiatura, disegnare gli storyboard, le scenografie, i modellini, i costumi. È un processo creativo di design lunghissimo che coinvolge tutti gli aspetti, compresi quelli legati alla fotografia. 2001: Odissea nello spazio è un caso esemplare: ha alle spalle una produzione metodica, sviluppata da gente di immenso talento, ma è anche un film che ha una forte spinta verso la sperimentazione, la voglia di raggiungere l’inaspettato, ciò che mai si era visto prima di allora. Stanley Kubrick aveva questa propensione. Era ansioso di sperimentare, di scoprire nuovi modi per fare le cose. Questo è stato un campo di apprendimento molto importante per me. Imparare a inventare, capire che si può anche sbagliare. Un modo di lavorare poco comune rispetto all’industria, che invece preferisce evitare qualsiasi rischio per non allungare i tempi di lavorazione o sforare i budget. Personalmente mi sento più vicino alla filosofia di Kubrick che agli standard produttivi hollywoodiani. Credo che questo aspetto emerga in maniera molto evidente nel documentario di Grégory Wallet. Kubrick era uno che diceva: se fino a oggi le così si sono fatte in questo modo, io le voglio fare in un altro.

Cosa l’ha convinta a dire sì a Grégory Wallet?

Durante la mia carriera mi è stato proposto molte volte di realizzare un documentario sul mio lavoro. Ma Gregory è stata la prima persona ad approcciarmi con una precisa idea su chi io fossi, non sugli effetti speciali. Questo documentario riguarda l’essere in quanto persona. Le emozioni, più che la tecnologia.

Come mai a un certo punto ha deciso di passare dietro alla macchina da presa?

Per la voglia di avere tutto sotto controllo. Immagino che questo sia il desiderio di ogni persona creativa. Mi è sembrato un approccio naturale che probabilmente ho assimilato da Kubrick, che considero il mio mentore, il mio maestro. Ho osservato anche altri registi con cui ho lavorato, Spielberg, Scott, che avevano un approccio diverso al cinema. Ho imparato qualcosa da ognuno di loro. Ed è successo che invece di voler avere il controllo su un singolo aspetto della lavorazione del film, quello degli effetti speciali, ho voluto provare ad averlo su tutti quanti.

Il suo lavoro cambia a seconda del regista con cui collabora? Realizzare gli effetti speciali per Kubrick o per Malick è la stessa cosa?

Può cambiare anche molto. Kubrick era unico, pianificava tutto. Malick è diametralmente opposto, detesta l’organizzazione, preferisce improvvisare. Se ha un piano di lavorazione, lo cambia. Per lui è tutto estemporaneo, tutto può accadere. Ha un approccio buddhista. Vuole raggiungere l’inaspettato anche prendendosi dei rischi.  

Com’è cambiato il suo lavoro con l’avvento delle nuove tecnologie? Preferisce lavorare con gli effetti visivi “organici” o con quelli “digitali”?

Esistono due forse opposte. Esiste ciò che è organico, naturale, come l’acqua, il cielo, la pioggia, il fuoco, e c’è la loro simulazione al computer. Non amo particolarmente la CGI, così come non amo troppo i computer. Il metodo della CGI è legato ai concetti della geometria, della matematica, al texture mapping, necessari per creare simulazioni della realtà. È qualcosa che ha a che fare con la tecnologia, ci sono miglioramenti e progressi continui, ma ciò che vede il nostro occhio umano è sempre il cielo, l’aria, l’acqua e il fuoco. Il nostro occhio sa riconoscere questi elementi e comprende se sono reali o meno. Quindi più riesco ad avvicinarmi a questa sensazione di verosimiglianza, più sono contento.

Come si pone rispetto alla Virtual Reality?

Sono aperto ai suoi possibili sviluppi, la VR è sicuramente interessante poiché è in grado di allargare le nostre percezioni. Ma per ora trovo quell’esperienza un po’ frustrante. Mi dà fastidio indossare l’oculus e mi pare che la qualità dell’immagine non sia quella che ci si dovrebbe aspettare da un’esperienza immersiva profonda. Per ora non mi interessa approfondire un’esperienza di VR da fruire singolarmente. Inseguo una maggiore qualità del 3D sullo schermo, uno schermo enorme, in modo da garantire una sensazione di realismo molto ampia e non limitata da un visore. Sono interessato a sviluppare un concetto di Virtual Reality, ma voglio farlo a modo mio.

Beatrice Fiorentino
02 Novembre 2018

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