Richard K. Morgan: “I miei romanzi non sono distopici, racconto le zone grigie”

Dalla sua penna è uscito il romanzo che ha ispirato la serie Netflix Altered Carbon. Scrittore britannico famoso in tutto il mondo, a Trieste Science + Fiction è presidente di giuria


TRIESTE – Dalla sua penna è uscito il romanzo che ha ispirato la serie Netflix Altered Carbon. E altri grandi successi del mercato editoriale come The Dark Defiles, The Cold Commands (Esclusi), The Steel Remains (Sopravvissuti), Black Man, Woken Furies (Il ritorno delle furie), Market Forces (Business), Broken Angels (Angeli spezzati). Il suo nome è Richard K. Morgan, romanziere britannico famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi distopici e cyberpunk, omaggiato nel 2003 con il Premio Philip K. Dick e nel 2009 con il premio Arthur C. Clarke. Si trova a Trieste, ospite di Science + Fiction Festival in qualità di presidente di giuria, chiamato a scegliere il migliore tra i sette film in competizione per il Premio Asteroide. La sua visione anarcoide e rivoluzionaria del mondo sembra oggi più lucida e cosciente che mai.

Mr. Morgan, si sta già parlando di una seconda stagione della serie Netflix Altered Carbon. Sarà coinvolto nella sua realizzazione?

Sì, ho un contratto come consulente con la Laeta Kalogridis e la produzione Skydance. La mia opinione conta. Mi hanno sottoposto le sceneggiature per ogni singolo episodio e diversi candidati per interpretare i personaggi, mi sono sentito parte del progetto. Mi trovo in una posizione fantastica perché posso dare il mio parere su tutto, ma non ho alcuna responsabilità su quello che sarà il destino commerciale della serie. Il mio coinvolgimento proseguirà negli stessi termini anche per la seconda stagione. L’unico inghippo è che per la nuova serie si dovrà necessariamente intervenire con un adattamento. Perché per seguire alla lettera l’evoluzione degli eventi, così come li racconto in Broken Angels, dove si sfocia in uno space opera, ci vorrebbe il budget di un film di James Cameron. E noi non abbiamo a disposizione un simile budget. Per questo sono stato coinvolto anche a livello creativo, per cercare di adattare la storia mantenendone inalterato il senso, ma rendendola più facilmente realizzabile.

Parliamo del concetto di identità presente sia nel romanzo che nella serie, un’identità distinta dal corpo. Nel presente che stiamo vivendo, su un’onda di crescente razzismo, con il giudizio sulle persone che passa anche per il loro aspetto fisico e la loro razza, è interessante vedere personaggi che possono cambiare corpo, come sappiamo che accadrà nella seconda serie con Anthony Mackie che prenderà il posto di Joel Kinnaman nel ruolo di Takeshi Kovacs. Da quando ha scritto Altered Carbon sono passati 16 anni e da allora molte cose sono cambiate. Se oggi dovesse riscrivere il romanzo lascerebbe inalterato questo concetto fluido di identità?

Per prima cosa, ci sono delle differenze tra romanzo e serie. La differenza principale è nella mia descrizione dell’1% della popolazione, ossia gli “oligarchi”. Nel libro io sono molto più feroce nei loro confronti, il mio giudizio è nettamente negativo. Anche se chi conosce il mio lavoro sa che per me le “zone grigie” sono il territorio in cui più amo muovermi. Nella serie tv, invece, c’è maggiore tolleranza, non tutti gli oligarchi vengono puniti perché anche tra loro c’è qualcuno moralmente accettabile. Poi, per rispondere alla sua domanda, se dovessi scrivere il romanzo oggi, non cambierei una virgola. Anche perché per come la penso io le politiche identitarie, nei termini in cui se ne discute oggigiorno, sono un boomerang. Quella che era l’intenzione originale di tenere insieme l’umanità, con questa politica identitaria dove ognuno rivendica la propria identità di genere, di provenienza etnica, di credo, finisce per creare un sistema di frazionamento. Che paradossalmente favorisce i movimenti di destra. Ecco perché sono completamente allergico ai discorsi politici basati sul principio dell’identità. Poi, certo, tutto va preso in considerazione, ognuno di noi ha un vissuto indipendente dalla nostra provenienza. Il protagonista ad esempio, Takeshi Kovacs, che si ritrova in un corpo caucasico: per lui è uno shock. Uno shock che provoca alienazione. Questa è un componente essenziale del tema del conflitto, ma va al di là dell’identità etnica. È più legata al mio concetto che i corpi sono cose che si possono anche sostituire, buttare via. Sono focalizzato su questo aspetto. Takeshi Kovacs: il suo stesso nome contiene una derivazione mista, come la gran parte delle persone di questo pianeta. Origini asiatiche che si mescolano a radici balcaniche o est europee. L’idea di trovarsi in un corpo caucasico crea alienazione, ma non in un’ottica di rivendicazione dei diritti identitari; diventa invece parte della narrazione. È l’alienazione il punto di forza della storia. Sono molto critico su come l’azione politica, anche da parte di chi dovrebbe combattere le battaglie giuste, alla fine si riduca a un tweet, a un post. C’è un isterismo di massa. Si chiama “call-out culture” (il fenomeno sociale di denunciare pubblicamente, spesso via social media, la percezione di razzismo, sessismo, omofobia e transfobia – ndr). Non c’è più approfondimento, non ci sono più sfumature. Detesto la frammentazione politica in tweet, perché annulla completamente la sfumatura che è quella che ci fa dialogare come esseri umani. Per giunta, è un cavallo di Troia per le destre, che sfruttano a loro vantaggio le politiche dell’identità, rivendicando: siamo noi gli oppressi.

Siamo di fronte a un corto circuito tra, creazione artistica, osservazione della realtà e distopia. A un certo punto cinema e letteratura hanno creato futuri scenari distopici e la realtà del presente è ormai molto vicina a quegli scenari. È possibile oggi per uno scrittore o un regista immaginare distopie diverse da un prevedibile sviluppo degli eventi?

Personalmente non credo di aver mai scritto con l’intenzione di creare un universo distopico. Anche perché i miei capisaldi, come William Gibson e tutto il movimento cyberpunk, non erano dei distopisti ma narratori che cercavano di estrapolare idee da ciò che osservavano nella loro realtà – ed erano gli anni ’80-’90 – idee e spunti per creare i loro universi. Più che una distopia era una manipolazione di ciò che si osservava. E ciò che io scrivo non è distopico soprattutto perché io vivo nella convinzione che l’essere umano non cambi. La storia lo conferma. Se ci facciamo caso, non facciamo altro che osservare corsi e ricorsi storici molto simili al nostro presente: questo vale se rileggi la Storia, guardando all’impero romano come alle guerre napoleoniche, ma anche per i nostri tempi, che noi percepiamo come difficili e paurosi, con forze oscure alle porte e presidenti come Trump. C’è una circolarità degli eventi. Di tanto in tanto tornano le dittature, le guerre, ciclicamente. Poi, per certi versi, il nostro presente può essere visto come distopico, catastrofico, per altri le libertà di cui godiamo sono pura utopia. Forse l’unico romanzo che ho scritto che contiene elementi distopici è Market Forces, ma più che distopico lo definirei assolutista.

A proposito di Market Forces: doveva inizialmente essere un film, poi non è stato realizzato. Come mai? Il contenuto anticapitalista, anti-finanziario di quella storia è stato un ostacolo alla sua realizzazione?

In realtà il libro è nato prima come racconto breve, poi è diventato una sceneggiatura e alla fine un romanzo. Il motivo per cui è stato per tanto tempo nel limbo è che l’idea mi è venuta in un periodo in cui i racconti non li pubblicava più nessuno. Decisi di lavorarci per trasformarlo in una sceneggiatura e in questa forma abbiamo firmato un accordo con la Warner Bros. per farne un film, ma era un contratto a termine e dopo due anni non se ne fece nulla. Però non escludo che prima o poi il film si possa fare. In verità non credo che il messaggio anticapitalista abbia avuto un peso in questa vicenda. Magari non ha aiutato, perché c’è chi ancora considera la critica al capitalismo una cosa blasfema. Il problema vero, probabilmente, è che non ero molto a bravo a scrivere. O almeno non ero bravo a scrivere per il cinema. Forse me la sono cavata con la struttura narrativa, ma di sicuro il punto debole erano i personaggi. Per questo alla fine ho deciso di farne un romanzo. E comunque non è stata una gestazione facile. Ho ricevuto molte lettere di rifiuto, che però mi sono state molto utili per capire come venisse recepito. La critica che mi veniva mossa più spesso era che i miei personaggi fossero degli stronzi egocentrici con i quali era impossibile empatizzare. Il fatto è che, sì, l’idea era proprio quella. Che i personaggi fossero degli stronzi senza morale. Quindi potrei dire che l’ostacolo maggiore è stata la natura ambigua dei personaggi. Erano gli anni ’90, quando tutto era molto manicheo e anche gli attori del momento, Van Damme, Schwarzenegger, Stallone, hanno rifiutato perché non se la sentivano di abbracciare dei personaggi così discutibili. Oggi, probabilmente ci sarebbe più spazio di azione.

I suoi prossimi impegni?

È appena uscito il mio nuovo romanzo In Thin Air, una sorta di sequel del mio romanzo Thirteen, ambientato su Marte e scritto in prima persona, come ai vecchi tempi. Per adesso ha ricevuto ottime recensioni, credo che possa piacere sia agli appassionati di fantascienza pura che ai fan della serie Altered Carbon. Inoltre, ho un ruolo di consulente come show runner in una serie a fumetti che sarà pubblicata dalla Dynamite Comics ambientata nell’universo di Altered Carbon. Non sono autore della serie, ma consulente. C’è la seconda stagione delle serie Netflix e poi ci sono anche altri due o tre progetti in cui sono coinvolto, ma di cui non posso parlare perché ho firmato delle clausole di riservatezza. Diciamo che mi tengo abbastanza impegnato.

Beatrice Fiorentino
03 Novembre 2018

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