Guillaume Senez: “Storia di un padre in lotta”

In sala con Parthenos Le nostre battaglie del regista belga, in concorso al 36° TFF, storia di un operaio che deve costruire un rapporto autentico con i suoi figlioletti


TORINO – Senza perdere la tenerezza. Si potrebbe sintetizzare così la particolare grazia di un film del concorso di TFF, Le nostre battaglie, del belga Guillaume Senez. Opera seconda che affronta il tema del lavoro e dello sfruttamento, in una parola dell’alienazione contemporanea, attraverso il ritratto di un padre che prende via via coscienza dell’importanza di costruire un rapporto autentico con i suoi due figlioletti, dopo che la moglie è scomparsa nel nulla, scappata di casa in seguito a una depressione che l’uomo quasi non aveva notato.

Dopo aver vinto l’edizione 2015 di Torino con il suo film d’esordio, Keeper, il 40enne Senez porta qui un lavoro già applaudito alla Semaine de la Critique di Cannes, in cui spicca la presenza di Romain Duris, nel ruolo di Olivier, caporeparto in una grande azienda di ecommerce alla Amazon che sfrutta al massimo i lavoratori – non hanno neppure il diritto al riscaldamento acceso nel magazzino dove ogni movimento e ritmo è controllato allo spasimo dai tablet e chi diventa meno produttivo viene immediatamente cacciato. Olivier, operaio modello, lotta contro le ingiustizie e difende i diritti della sua squadra, ma è quasi paralizzato di fronte a un’emergenza familiare che cambierà profondamente, e in fin dei conti in meglio, la sua percezione della realtà arrivando a rifondare una “democrazia” casalinga con i suoi bambini che prelude a un maggiore impegno anche nel sindacato. Le nostre battaglie uscirà in sala il 7 febbraio con Parthenos.

Da cosa nasce la vicenda umana del film che, con grande empatia, ci fa entrare nella vita di questa piccola famiglia e nelle tante relazioni di Olivier, con sua madre, sua sorella, la compagna di fabbrica con cui ha una breve storia, gli altri operai, i suoi capi.

Stavo preparando il mio primo lungometraggio, Keeper, quando la mamma dei miei figli ci ha lasciato e mi sono ritrovato da solo con i bambini, dovendo imparare a guardarli, ascoltarli, a stare con loro. Ho cercato un faticoso equilibrio tra la mia voglia di essere cineasta e questa grande responsabilità di padre. Così, da uno spunto biografico e personale, è nata la drammaturgia del film.

Romain Duris, un attore con una lunga storia professionale, si integra in modo sorprendente con i due piccoli interpreti. Come ha lavorato su questo aspetto?

I personaggi per me sono persone, persone che devono essere incarnate dagli attori che scelgo. Persone cioè esseri umani, senza manicheismo, in tutta la loro complessità. Dunque, chiedo agli attori di entrare in empatia con i personaggi. C’è una sceneggiatura e ci sono dei dialoghi scritti, certo, ma non do agli attori i dialoghi perché lavoro sull’improvvisazione, ognuno trova le sue parole e le sue battute, tutto questo conferisce al risultato la massima naturalezza e spontaneità. Questo è un modo di lavorare con gli attori che spesso si preferisce evitare, ma io voglio che tutto sia credibile. Cerco di creare nello spettatore l’emozione, la connessione. Voglio che i bambini siano credibili quanto un attore conosciuto come Duris. Anche gli attori professionisti, quando non sanno cosa diranno, sono costretti a un’attenzione particolare, devono imparare a guardarsi e ascoltarsi con gli altri interpreti.

Il tema del sindacato, che lei ha raccontato in un contesto particolarmente privo di diritti, come in un industria alla Amazon, è molto attuale e cruciale nella nostra società. L’abbiamo appena visto declinato in altre forme nel film di Stephane Brizé In guerra. Come si è documentato per descrivere il mondo del lavoro?

Non ho visto il film di Brizé, ma quando diversi cineasti si occupano di uno stesso aspetto, significa che c’è qualcosa che sta accadendo nelle nostre società che reclama di essere raccontata in varie forme, c’è qualcosa che urta, che sta cominciando a dare fastidio, ed è compito dei cineasti proporre una visione del mondo. Quanto alla preparazione, ho visitato gli stabilimenti Amazon e ho incontrato dei sindacalisti che mi hanno aiutato a descrivere la situazione all’interno della fabbrica. Non abbiamo inventato nulla.

La sua visione non è mai gridata, anzi sempre sottovoce, anche quando il licenziamento di un cinquantenne che ha un problema di esaurimento provoca una tragedia.

Sono evidentemente una persona di sinistra, ma non ho voluto affrontare le cose di petto. Per sensibilizzare il pubblico nei confronti di una problematica sociale, bisogna descrivere le cose con sottigliezza, io volevo mostrare le ripercussioni sulla famiglia e sui figli di una condizione di lavoro alienante. C’è una strettissima correlazione tra mondo privato e mondo del lavoro. Il mio ruolo è provare a suscitare un’emozione nello spettatore per produrre una riflessione approfondita. Questo non può essere fatto con un elenco delle rivendicazioni dei lavoratori, pur giuste, ma raccontando una storia umana.

Il freddo, sia nei colori che nella condizione climatica, è un Leitmotiv del film.

Abbiamo girato a dicembre nell’Yser. È stata dura, faceva veramente tanto freddo. Per gli attori è più facile recitare il freddo se fa veramente freddo. Quanto ai colori volevo una scala di grigi e blu. Poi c’è un contrasto preciso tra le sequenze girate nel magazzino e quelle in casa, sia nel modo di filmare, che nelle luci, nei colori e nella temperatura. L’idea del film è che molto difficile aiutare le persone che ami, quelle che ti sono più vicine. Olivier è vicino ai compagni di lavoro, ma non a sua moglie e ai suoi bambini, quindi c’è questo contrasto tra i due ambiti.

Cristiana Paternò
25 Novembre 2018

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