Della Casa&Ronchini: gli anni ’50 non solo DC e PCI

"Si narra quel decennio sempre con questo schema: da una parte i democristiani dall’altra i comunisti. Noi pensiamo che c’era altro". Così gli autori del doc Bulli e pupe distribuito da Luce Cinecittà


TORINO. Cosa sono stati gli anni ’50 in Italia, quale è l’anima di quel periodo? Innanzitutto la voglia di lasciarsi alle spalle le macerie della guerra, un passato di rovine e dolori, con l’obiettivo di ricostruire il paese e metterlo al passo dei tempi, insomma di entrare nella modernità. E interpreti di questa tensione collettiva verso il cambiamento sono le giovani generazioni, ma la società italiana è pronta ad accogliere queste istanze? A queste domande prova a rispondere il documentario Bulli e pupe, diretto da Steve Della Casa e Chiara Ronchini – presentato in Festa mobile, fuori concorso – distribuito da Istituto Luce Cinecittà che lo ha anche prodotto in collaborazione con Titanus. Per capire lo spirito del tempo gli autori provano a rileggere gli anni ’50 affidandosi a un montaggio raffinato del ricco materiale visivo e sonoro originale selezionato da vari archivi – a partire da quello inesauribile dell’Istituto Luce – e riproposto senza alcun commento o voce fuori campo.

Parlano invece gli spezzoni di quel cinema che ha saputo intercettare i cambiamenti di costume e cogliere il quotidiano (da Risi a Comencini, da Zurlini a De Santis, Germi). Parlano le riflessioni, le analisi di scrittori e intellettuali che intervengono sulla contemporaneità e lo fanno in maniera profonda: Parise, Pasolini, Jemolo, Bianciardi, Annamaria Ortese, Flaiano, Prezzolini, Moravia, Calvino. Parlano infine le testimonianze di giovani contenute in programmi radiofonici dell’epoca.

Avete cercato un nuovo modo e approccio di raccontare quel decennio?

Della Casa. Due anni fa avevamo fatto Nessuno mi può giudicare sugli anni ’60 e ci è venuto naturale guardare al decennio precedente, all’Italia del dopoguerra, della ricostruzione, il paese che da agricolo diventa industriale. Gli anni ’50 vengono sempre raccontati con uno schema ben preciso: da una parte i democristiani dall’altra i comunisti, da una parte il blocco occidentale e dall’altra il blocco sovietico, un mondo bipolare in gara per la conquista dello spazio, Gagarin contro la Nasa. Noi prima e ancor di più dopo il documentario pensiamo che c’era dell’altro: tensioni giovanili, conflitti generazionali, modelli che venivano dagli Stati Uniti. E c’erano anche intellettuali, appartenenti a orientamenti politici differenti, che avevano capito questi fermenti, che c’è una nuova generazione che si sta imponendo. Abbiamo cercato i materiali necessari attraverso tre fonti: Archivio Luce e quello cinematografico della Titanus e l’associazione torinese Superottimisti che raccoglie film Super 8 familiari. E poi abbiamo utilizzato brani di interviste radiofoniche a intellettuali e giovani.

Ronchini. Abbiamo cercato soprattutto nelle cantine dell’Istituto Luce dove c’è ancora tanto materiale da esplorare. L’idea era di decostruire l’immaginario che è molto orientato e legato al passato e restituire la complessità di quegli anni, soprattutto una storia dal basso, trovando anche brani da inchieste sociologiche che restituissero la spontaneità dei giovani. Del resto gli anni ’50 sono quelli della giovinezza del nostro paese.

Avete utilizzato, scelta non frequente, anche documenti radiofonici.

Ronchini. L’idea di utilizzare diversi tipi di media come la radio, le prime inchieste sociologiche rilette e ri-raccontate, o come le inchieste dei grandi narratori del tempo, ha l’obiettivo di ricostruire con un linguaggio più complesso quel periodo, che ci viene invece presentato con una visione codificata e istituzionale. Abbiamo scardinato questo meccanismo in modo che l’archivio ponesse delle domande e non desse delle risposte preconfezionate. Abbiamo voluto utilizzarlo in senso contemporaneo.

Quale grande difficoltà avete incontrato nella narrazione di quell’epoca?

Ronchini. Raccontare le ragazze di quegli anni, perché il materiale di allora rispecchia una visione maschilista e sessista. Le immagini sulla condizione femminile sono del resto poche, si parla solo al maschile, e anche quando c’è un dibattito sulla donna e i suoi diritti la voce delle giovani è assente. C’è poi scarso materiale sulla vita nelle fabbriche, sulle condizioni lavorative all’interno degli stabilimenti.

Avete scelto di non utilizzare il commento, la voce fuori campo.

Della Casa. Chiara ha lavorato molto e bene sulla scelta e sul montaggio delle immagini che alla fine parlano da sole. L’unico intervento esterno sono le didascalie. Sul documentario la penso come Roberto Rossellini: le immagini devono parlare da sole. Comunque per arrivare ai 75 minuti del film abbiamo visionato quintali di materiali, ascoltato tante trasmissioni radiofoniche, perché il film contiene tanta radio.

Sembra che ci sia uno scarto molto netto tra gli anni ’50 e i ’60, o no?

Della Casa. Negli anni ’60 i giovani hanno dei soldi e dunque nasce un mercato solo per loro. Non negli anni ’50. Nel film c’è una sequenza di Renato Salvatori vestito come Marlon Brando in Fronte del porto, è un riferimento lontano a un mondo che non si può toccare. Negli anni ’60 invece si va davvero a Londra vedere Carnaby Street. Negli anni ’50 è un mondo di sogni perché i soldi non ci sono, il paese è a pezzi. Non a caso il film comincia con immagini a colori mai viste di Montecassino appena distrutta dai bombardamenti, è l’immagine di un’Italia rovinata dal punto di vista fisico e morale.

Ronchini. Gli anni ’50 sono un decennio di speranza, ma anche di grande restaurazione, i giovani vogliono rompere con la tradizione ma non ci riescono fino in fondo. Nasce invece la famiglia mononucleare, nasce l’idea della casalinga.

Che rapporto c’è tra l’immaginario cinematografico e quel tempo?

Della Casa. Nel 1954 si vendono 850 milioni di biglietti, oggi sono un decimo. Il cinema è il divertimento che gli italiani amano, non il calcio né la musica, non la televisione che è solo all’inizio. La caratteristica del nostro cinema di quel periodo fino alla metà degli anni ’70 è che da qualsiasi film, anche il più conservatore, emerge qualcosa che spiega il tempo. Perciò l’integrazione tra il materiale cinematografico e quello familiare dei super 8 funziona benissimo.

Perché questo sottotitolo Storia sentimentale degli anni ’50?

Della Casa. Non vuole essere una storia politica, sociologica, non vogliamo rubare il mestiere agli storici e ai sociologi, volevamo raccontarla dal punto di vista della quotidianità.

Stefano Stefanutto Rosa
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