Alexey German jr: “Dovlatov, dissidente come mio padre”

Dopo l'Orso d'argento per il contributo artistico a Berlino, arriva anche al TFF Dovlatov I libri invisibili, nuovo film di Aleksey German Jr. in sala ad aprile con Satine Film


TORINO – Dopo l’Orso d’argento per lo straordinario contributo artistico a Berlino, arriva anche al TFF Dovlatov I libri invisibili, nuovo film di un beniamino dei festivalieri come Aleksey German Jr. (Orso d’argento per Under the Electric Clouds, Leone d’argento per Paper Soldier). Il film, girato in atmosfere nebbiose che sembrano confondere realtà storica, immaginazione artistica e sogno (o incubo) è un omaggio a scrittori dissidenti come Sergei Dovlatov e Iosif Brodsky. In particolare segue le peregrinazioni di Dovlatov nella Leningrado degli anni ’70 lungo sei giorni in cui lo scrittore (Ufa, 3 settembre 1941 – New York, 24 agosto 1990) non riesce a pubblicare neanche un rigo, né un articolo di giornale né un racconto, sempre rimpallato da ostacoli burocratici e richieste surreali. Di origine in parte armena in parte ebraica, di notevole bellezza e molto amato dalle donne, fu sempre inviso all’Unione Sovietica. L’edizione del suo primo libro venne distrutta dal KGB, nel 1976, quando alcune sue storie vennero pubblicate in riviste occidentali in lingua russa, fu espulso dall’Unione dei Giornalisti dell’URSS, nel ’78 emigrò con la madre Nora e poi, nel 1979, raggiunse la moglie Elena e la figlia a New York, solo qui trovò il riconoscimento che meritava. Dovlatov I libri invisibili uscirà con Satine Film nella primavera dell’anno prossimo.

“Ho cominciato a leggere le opere di Dovlatov molto tardi, quando avevo circa 26/27 anni – racconta il regista – ma da quel momento le ho lette una dopo l’altra. Già da allora ho cominciato a maturare l’idea di realizzare un film su di lui ma per circa 15 anni ho continuato a chiedermi come poterlo fare: Dovlatov è indiscutiblmente uno dei simboli degli ultimi 25 anni del XX secolo. È una super-star della letteratura russa e in molti lo ricordano come una persona straordinaria e al tempo stesso dall’humour sottile e dall’incredibile talento: è un vero peccato che non nascano più uomini come lui”.

La sua scelta di concentrarsi sulla vicenda di questo autore dissidente è legata anche alle sue vicende personali e alle difficoltà che suo padre Alexej German ha dovuto affrontare?

Sì, questo è uno dei motivi significativi. La mia famiglia conosceva i Dovlatov, erano nostri vicini, sentivo il bisogno di tornare alla Leningrado di quegli anni, inoltre mio padre fu vittima di questi divieti, i suoi film furono congelati per circa 15 anni, nello stesso periodo in cui la prosa di Dovlatov non veniva pubblicata. Mi sembrava importante parlare del fatto che la proibizione dell’arte non serve a niente. Dovlatov e Brodsky sono stati censurati, gli è stato impedito esprimersi, ma in ogni caso rimarranno nella storia della letteratura.

Perché concentrarsi proprio su questi sei giorni?

Innanzitutto il film non è una vera e propria biografia e ci sono anche cose inventate, lo considero un anti biopic. Abbiamo scelto di parlare di un momento in cui sembra che non succeda niente e invece succede tutto. Il film rivela un momento incredibilmente interessante della Leningrado degli anni ’70, un periodo di grande fermento e vivacità. Brodsky non era ancora partito per l’America, né Dovlatov per l’Estonia. C’erano ancora gli echi di libertà del periodo precedente, quello del “disgelo”. I nostri personaggi sono ancora giovani, hanno trent’anni e sono pieni di energia. Anche se li vediamo fin dall’inizio esausti e con la barba lunga, non hanno ancora perso la speranza.

Il film presuppone una conoscenza di Dovlatov, lascia molte cose senza spiegazione.

Siamo stupiti della risposta che c’è stata un tutto il mondo, perché pensavamo di rivolgerci a un pubblico russo, che capisce meglio il contesto e gli aspetti specifici. Invece è stato compreso da tutti.

A un certo punto Dovlatov viene inviato sul set di un film celebrativo, per scrivere un reportage, e incontra degli attori che impersonano grandi della letteratura russa come Puskin, Dostoevskj e Tolstoi. Ci può spiegare quella scena?

In Russia due sole cose funzionano: l’arte e l’esercito. In ogni fase della storia russa, sotto qualsiasi regime, dallo zarismo in avanti, l’arte ha sempre rivestito un ruolo importante per il potere, ma solo l’arte del passato, usata per dare una legittimazione. Dostoevskij e Tolstoi non erano contrari a Lenin… Spesso questi personaggi, specie se morti, vengono recuperati a fini politici, si fa anche nelle campagne elettorali. Recuperare il passato implica anche che gli artisti di oggi sono tutti una schifezza, mentre quelli del passato sono dei geni. L’Urss viveva di questi paradossi. Per esempio in tutti gli studi cinematografici c’era una targa con la frase di Lenin che dice che “di tutte le arti il cinema è la più importante…”, ma con quei puntini veniva omesso che Lenin citava anche il circo tra le arti maggiori. 

Il film mescola reale e onirico.

Io mescolo sempre reale e non reale. Anche il grande cinema degli anni ’60/ 70 con autori come Fellini, Antonioni e Tarkovski supera la realtà e cerca di trasportare nella lingua del cinema le proprie percezioni. Oggi non è più tanto importante lo sguardo dell’autore quanto la tematica sociale, ma io non sopporto il cinema sociale, mi sembra che uccida il senso stesso del cinema. Io trasmetto la mia percezione dell’epoca.  

A Berlino avete vinto l’Orso d’argento per scene e costumi.

Abbiamo ricostruito tutto, sulla base della documentazione che avevamo: palazzi, stoffe, vestiti, interni. Abbiamo anche incontrato le figlie di Dovlatov, Elena e Ekaterina, e siamo andati parecchie volte a San Pietroburgo. Entrambe sono state informate sin dall’inizio del nostro progetto, poiché credo sia indelicato per un filmaker invadere la vita privata di una persona senza chiedere il permesso. Siamo riusciti anche parlare con alcuni degli amici di Dovlatov. Tutti ci hanno aiutato a ricostruire l’essenza della sua personalità, il modo in cui ai suoi occhi appariva quell’epoca.

Come ha scelto il protagonista, l’attore serbo Milan Maric?

Per il nostro casting, la sfida maggiore da affrontare era il fatto che Dovlatov era bello come una star del cinema ma al tempo stesso ospitava un mondo interiore incredibilmente complesso. Insieme al mio team abbiamo concluso che la somiglianza fisica dovesse essere estremamente importante, poiché Dovlatov, con le sue radici ebraiche e armene aveva un aspetto molto particolare. Trovare un attore che possedesse tutti questi requisiti non è stato facile e quando abbiamo scoperto Milan Marić siamo stati felicissimi. Parlava molto male il russo, ma l’abbiamo portato a San Pietroburgo e l’abbiamo piazzato in un appartamento decadente facendolo mangiare cose molto caloriche. Nel giro di quattro mesi ha assorbito la cosiddetta anima russa. Però devo dire che nel film è doppiato.

Cristiana Paternò
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