Álvaro Brechner: la lunga notte dell’Uruguay e del suo presidente

“Una notte di 12 anni è una sorta di percorso esistenziale, la sfida principale, quindi, è stata quella di evitare di farne un prison-movie”, così il regista uruguayano Alvaro Brechner sul suo film


Una notte di 12 anni è una sorta  di percorso esistenziale, la sfida principale, quindi, è stata quella di evitare di farne un prison-movie”, così il regista uruguayano Alvaro Brechner spiega il suo terzo film (i precedenti Bad Day To Go Fishing e Mr. Kaplan) presentato a Venezia Orizzonti 2018 e in uscita il 10 gennaio con Bim e Movies Inspired. il film è basato sulle testimonianze delle esperienze vissute da tre personaggi rappresentativi dell’Uruguay contemporaneo: José “Pepe” Mujica, ex Presidente dell’Uruguay, Mauricio Rosencof, famoso scrittore e poeta nonché ex assessore alla Cultura di Montevideo ed Eleuterio Fernández Huidobro, ex ministro della Difesa. Questi ultimi due autori del libro “1989: Memorie del Calabozo” (pubblicato in Italia nel 2009 con il titolo “Memorie dal calabozo, 13 anni sottoterra” ed. Iacobelli).

Il film ripercorre la terribile prigionia, dal 1973 al 1985, vissuta dai tre esponenti del movimento di guerriglia dei Tupamaros che vengono sottoposti a un trattamento carcerario disumano, fatto di botte, torture, isolamento in celle spesso anguste, privati delle necessità basilari. L’obiettivo dei militari al potere che li hanno portati via in gran segreto dal carcere è quello di reprimere la loro resistenza fisica, psicologica e morale, conducendoli alla pazzia. E’ una discesa nell’inferno, ogni volta collegata a uno spostamento in una caserma differente, e l’unico modo di sopravvivere è quello di affidarsi all’immaginazione, perché come dice la madre al figlio disperato José “Pepe” Mujica, “gli unici sconfitti sono quelli che si arrendono”.

Come nasce il film?

Grazie ad anni di ricerche e anche di incontri con i tre protagonisti, con altri prigionieri, con militari e storici. Fondamentalmente questo film ha due aspetti, due livelli. Il primo è quello astratto e storico, ma per me il più importante è il dibattito esistenziale. Che tipo di lotta s’innesca all’interno di un essere umano  che gli consente di restare tale nonostante viva in circostanze estreme. Perciò sono stati anni e anni di incontri e tentativi di capire perché il linguaggio stesso dell’uomo non riesce a rappresentare l’orrore. E’ stato allora importante parlare con neurologi per comprendere in che modo il cervello riesce a sopravvivere, a mantenersi a galla in queste circostanze. Non va poi dimenticato che per me il cinema è un’esplorazione dell’altro che ti fa dimenticare te stesso, anche se poi, indagando sempre più, l’altro ti diventa sempre meno estraneo fino a ritrovare te stesso.

Lei ha incontrato i tre personaggi del film, che cosa in particolare l’ha colpita della loro terribile vicenda?

Ero nel salone presidenziale con Mujica, Rosencof e Huidobro e Mujica mi ha detto che ci sono volte in cui si sveglia la mattina e rimpiange la cella e sono rimasto stupito. Mi ha spiegato che mai aveva avuto così tanto tempo per essere se stesso. Sono stati i 12 anni più orrendi della mia vita eppure oggi non sarei la persona che sono se non avessi avuto tutto quel tempo per essere me stesso. Ho riscontrato che è vero quello che raccontano tante persone che hanno conosciuto esperienze di privazione della libertà in situazioni estreme come quella vissute dai 3 protagonisti. Rimane sempre la possibilità di rifugiarsi in un ambito intimo, personale che è quello dell’immaginazione, di poter entrare dentro se stessi e di trovare in quell’immaginazione qualcosa che lasci la dignità di essere uomo. Questa esperienza non è stata soltanto un’esperienza di sopravvivenza, in un certo senso è stata una forma di illuminazione e di scoperta che ha permesso loro non soltanto di sopravvivere ma anche poi di guardare al futuro, con speranza.

Come è stato accolto il film in America Latina?

Subito dopo la partecipazione alla Mostra di Venezia, il film è uscito in Uruguay, Argentina, Messico e in Brasile dove è arrivato in sala proprio in coincidenza del voto elettorale. E’ stato apprezzato dal pubblico, ha avuto riconoscimenti della critica ed è candidato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, oltre ai premi Goya. Non va visto come un film sulla dittatura militare. E’ ancora difficile guardare al recente passato del mio paese, gli eventi che videro protagonisti i tupamaros e il potere militare sono ferite non ancora rimarginate.

Nel dramma c’è anche un po’ di spazio anche per la commedia, come nella scena del prigioniero ammanettato e impossibilitato a usare il gabinetto.

Tante sono state le situazioni ridicole e comiche che mi hanno raccontato i tre protagonisti, riuscivano a ridere delle cose terribili che avevano vissuto in quei momenti. E’ una reazione naturale dell’essere umano per sopravvivere in condizioni estreme.

Che cosa ha chiesto agli attori perché potessero misurarsi con una sfida così impegnativa?

Tutti e tre gli interpreti hanno affrontato innanzitutto una prova forte, quella di perdere 15 chili del loro peso per sperimentare da vicino le condizioni estreme vissute dai prigionieri. Ma hanno anche sostenuto un faticoso lavoro di condizionamento psicologico che li avvicinasse il più possibile a quel percorso individuale nella follia e nelle tenebre. Nonostante la sceneggiatura di ferro, gli attori hanno comunque improvvisato ed io ho filmato senza interruzioni, anche scene lunghe fino a mezz’ora senza sapere dapprima cosa sarebbe accaduto.

Nella colonna musicale c’è una famosa canzone di Simon&Garfunkel, che ritroviamo ne Il laureato, come mai questa scelta?

Mi trovavo in un bar a lavorare sulla sceneggiatura, quando ho sentito questo brano musicale. Ho cominciato a canticchiarlo e mi sono accorto che quelle parole avevano a che fare con il racconto del film. Richiamavano la capacità di essere nell’oscurità, ascoltando il silenzio, la capacità dell’uomo di trovare l’illuminazione nelle tenebre.

Perché i militari nella realtà non hanno deciso di uccidere da subito i tre prigionieri?

E’ un mistero, ma anche una domanda che mi sono posto più volte. La risposta ha a che fare con l’Uruguay che, nonostante i prigionieri politici e i desaparecidos, ha una tradizione democratica. E inoltre la dittatura militare, che già aveva annientato i tupamaros un anno prima, aveva bisogno di ostaggi per prevenire qualsiasi altra azione dei guerriglieri.

Stefano Stefanutto Rosa
09 Gennaio 2019

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