Louis-Julien Petit: “Senza fissa dimora, non più invisibili”

Un film che ha messo in moto un grande movimento d'opinione in Francia ed è arrivato fino al presidente Macron. Le invisibili di Louis-Julien Petit in sala dal 18 aprile con Teodora


Un film che ha messo in moto un grande movimento d’opinione in Francia – con dieci milioni di euro di incassi – ed è arrivato fino al presidente Macron. Le invisibili di Louis-Julien Petit, in sala dal 18 aprile con Teodora, parla con semplicità e leggerezza di cose serie: la lotta quotidiana di un gruppo di senza fissa dimora e delle assistenti sociali e volontarie che tentano di aiutarle in un centro diurno, L’Envol. Fino al giorno in cui viene deciso di tagliare i finanziamenti alla struttura che non produce abbastanza “successi” nel reinserimento delle assistite. A quel punto le organizzatrici, anziché arrendersi, si mettono in testa di trovare un lavoro a tutte, indipendentemente dall’età e dalle altre condizioni, attraverso un percorso virtuoso in cui loro stesse imparano qualcosa. Una commedia corale, nella linea di Ken Loach, con una squadra di notevoli interpreti, non solo le professioniste Audry Lamy e Noémie Lvovsky, ma anche tante donne che hanno sperimentato la vita di strada. E tra le attrici c’è anche la bravissima Corinne Masiero, che con un’adolescenza di droga e prostituzione, si è salvata attraverso il teatro e il cinema interpretando con Louise Wimmer (2012) la vicenda di una separata che si trova a dormire in macchina.

Le invisibili, che ha inaugurato a Roma il Festival Rendez-vous ed è stato presentato alla mensa della Comunità di Sant’Egidio, si ispira al lavoro sul campo di Claire Lajeunie, che ha dedicato un libro e un documentario alle donne senza fissa dimora di Parigi. Petit, nato a Tolone nel 1983, ha lavorato sul set di autori come Frears, Tarantino, Nolan e Scorsese, e ha al suo attivo già due lungometraggi: Discount e Carole Matthieu. L’abbiamo incontrato per Cinecittà News. 

E’ vero che La vita è bella di Benigni l’ha convinta a diventare regista?

Quel film fu uno choc per me. Avevo 13 anni e ricordo benissimo quando Scorsese consegnò la Palma d’oro a Benigni, che si mise in ginocchio davanti a lui. Poi mia sorella mi portò a vedere La vita è bella e decisi di diventare regista. Mi aveva conquistato, avevo riso dall’inizio alla fine con una storia che non ha niente di buffo o leggero. Da allora penso solo a fare film. La vita è bella ha ispirato anche il mio corto di diploma e la tesi sul determinismo del film alla Ecole supérieure de réalisation audiovisuelle di Parigi.

Anche Le invisibili parla di cose drammatiche con un tono piacevole.

Mi hanno ispirato le commedie anglosassoni post Thatcher, quando lo stato sociale era stato smantellato e la cultura inglese distrutta. Registi come Ken Loach e Stephen Frears reagirono ridendo alla crisi, cercando una soluzione almeno al cinema con titoli come My beautiful laundrette o Full Monty. Il loro motto era: non abbiamo più niente da perdere, quindi abbiamo tutto da guadagnare. Una filosofia che dà forza allo spettatore. Ma mi sento vicino anche a certa commedia italiana, quella di Ettore Scola e Luigi Comencini, per esempio Lo scopone scientifico. Con personaggi non troppo realisti, sempre un po’ sopra le righe.

Il suo film ha smosso le acque in Francia. Anche il presidente Macron l’ha visto.

Pensi che  la sindaca di Parigi, grazie al film, ha deciso di dare alloggio, aiuto medico e assistenza a 50 donne sfd. Siamo stati contattati da molte associazioni. La Fondazione Abbé Pierre ha voluto premiare la città che si è distinta maggiormente nel respingere e ostacolare i senza tetto. E così molti hanno tolto le barriere che servivano a impedire alle persone di sedere a terra o di stendersi sulle panchine. In tanti mi mandano foto su twitter. Io voglio che le mie tasse siano spese per l’inclusione e non per l’esclusione. Il film è stato visto nelle prigioni, nelle scuole. Oggi in Francia tutti sono consapevoli che invisibili non sono solo i senzatetto ma anche gli assistenti sociali e i volontari che meritano di essere aiutati. Io credo fortemente all’impegno dei cittadini e ora Macron, che ha visto il film, ha voluto una legge, Logement First, che impone di trovare un alloggio ai sfd. La persona paga in funzione dei propri mezzi, oltre ad essere sostenuta psicologicamente. Il governo conosce l’entità del problema e sa bene quali sono le soluzioni. Spero che abbiano il coraggio di applicarle.

Come avete scelto le straordinarie interpreti?

C’è stata una grande operazione di casting. Durante i provini ognuna ha avuto circa un’ora per raccontare senza filtri la sua storia. Abbiamo fatto un laboratorio teatrale con loro chiedendo di scegliersi dei soprannomi come Lady D, Simone Weil, Brigitte Macron… per garantire l’anonimato e lasciarsi andare meglio. Una delle protagoniste, Chantal, ha scelto Edith Piaf e canta davvero tutte le sue canzoni. Chantal è stata 11 mesi in prigione per aver ucciso il marito che la picchiava. Ma dopo il carcere nessuno le dava più lavoro, era marchiata a sangue, allora ha deciso di vestirsi sempre di rosso. Sul set è rinata, i suoi desideri sono stati tutti esauditi: voleva conoscere dei presentatori tv e incontrare Macron. Ma soprattutto ha ricevuto amore. Il film l’abbiamo fatto davvero con amore, con umorismo e umanità. Ieri sera ho incontrato Marcello Fonte e ho trovato in lui qualcosa di simile: anche Matteo Garrone trova le persone nella vita reale, così si crea un’identificazione più vera per lo spettatore. 

Come ha lavorato sulla psicologia delle donne sfd, che è molto complessa, un insieme di fragilità e dignità.

Avevo scritto una prima sceneggiatura che ho gettato nel cestino: era il risultato di un anno passato in un centro di accoglienza, ma era troppo documentaristica, un doppione rispetto all’ottimo lavoro di Claire Lajeunie. Ho capito che se volevo fare un film, dovevo metterci un lato umoristico e bisognava che queste donne abitassero tutte sotto lo stesso tetto. Sono tutte minacciate: le senzatetto come le assistenti sociali. Non si nasce sfd, queste persone sono spesso diplomate, parlano varie lingue, ne sanno più di me e di lei. Può capitare a chiunque di finire in strada. Ero arrivato pieno di pregiudizi ma poi ho cominciato a dare una mano, distribuivo il dentifricio e intanto facevo domande. Ho scoperto che sono tutte vittime di un dramma familiare, una separazione, un lutto. Succede qualche tragedia e poi le cose precipitano alla velocità della luce. Chi ha dei parenti viene aiutato, ma chi è solo perde tutto… 

Via via che il gruppo si consolida, le donne cambiano completamente atteggiamento, cambiano anche postura, camminano a testa alta.

Abbiamo girato in sequenza e abbiamo visto davvero la luce accendersi nei loro occhi durante le riprese. Fare parte di un gruppo, essere amate, accettate, anche un po’ pagate, è una cosa straordinaria. Quando abbiamo girato la scena dell’art therapy, ognuna di loro ha voluto parlare di sé. Per quattro ore abbiamo ascoltato le loro storie. Ci hanno raccontato le ragioni che le hanno portate per strada. Lì ho toccato il problema del limite. Spesso un regista ruba pezzi della vita delle persone, senza rendersi conto delle conseguenze che questo può avere. Mi sono reso conto che erano storie universali, che ci toccano tutti, perché tutti noi sperimentiamo il lutto, la disoccupazione, la malattia, la separazione. Quella scena ha creato un legame indissolubile fra tutti noi e dico sempre che il film appartiene a loro. 

Cristiana Paternò
04 Aprile 2019

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