Marco Bellocchio: “Il mio Buscetta, un traditore conservatore”

La mafia raccontata da Bellocchio ne Il traditore, fin dalla prima lunga scena del festino di Santa Rosalia, celebrato dai mafiosi palermitani in pompa magna, è intrisa di religiosità e teatro


CANNES Marco Bellocchio è in concorso a Cannes con un film di grande complessità, un film importante e compiuto che mette in scena anomalie tutte italiane. L’intreccio tra mafia e politica, la sacralità oscena della famiglia in senso biologico e criminale. Il mito antieroico e macabro. La mafia raccontata da Bellocchio ne Il traditore, fin dalla prima lunga scena del festino di Santa Rosalia, celebrato dai mafiosi palermitani in pompa magna, è intrisa di religiosità e teatro, anzi di melodramma. Un melodramma che esplode in dramma quando, letteralmente, esploderà Capaci e l’auto con il giudice Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. E dà i brividi la scena in cui i mafiosi festeggiano la morte del giudice stappando spumante e sputando sullo schermo tv dove il telegiornale annuncia la strage. Non c’è mitologia o meglio il mito si rovescia in rituale di morte ma c’è il fascino di un personaggio come Tommaso Buscetta, il “traditore” che mai si considerò tale e neanche pentito ma solo paradossale moralizzatore della nuova mafia dei Corleonesi e di Totò Riina (Nicola Calì), quella che prendeva il sopravvento buttando a mare “soldati” come lui e come Totuccio Contorno (un superlativo Luigi Lo Cascio) sterminando intere famiglie compresi i parenti non mafiosi. Del resto, il ‘boss dei due mondi’ amava le donne, con le sue tre mogli e le numerose amanti che gli venivano portate persino in carcere all’Ucciardone, era un puttaniere e cantante di piano bar. Piefrancesco Favino, in un’interpretazione da premio e magnetica, gli dà corpo, un corpo robusto e forte, ingrassato di nove chili per il ruolo, affamato di vita e di palcoscenico. Bellocchio racconta l’uomo che consegnò le chiavi di Cosa Nostra a un servitore dello Stato come Falcone (interpretato da Fausto Russo Alesi): lo racconta a Palermo e a Rio de Janeiro dove segue la moglie Cristina (Maria Fernanda Cândido), dove viene arrestato per traffico di droga (accusa che negò sempre) e quindi estradato in Italia. Lo racconta nel maxiprocesso con 475 imputati a urlare nelle gabbie e inventarsi di tutto per gettare scompiglio. Tra loro l’ex amico fraterno Pippo Calò (Fabrizio Ferracane): tutti a chiedere un confronto con Buscetta per screditarlo. Anche se a metterlo in crisi sarà invece l’onnipresente Giulio Andreotti, chiamato in causa per i suoi rapporti con la mafia e che, in una scena in sartoria, ci viene mostrato in mutande. Andreotti morirà di vecchiaia e Buscetta di malattia anche se con lo spettro mai sopito di un attentato, con un fucile sotto il braccio anche quando dormicchia sotto le stelle e con ricordi di insostenibile violenza scespiriana a perseguitarlo, ognuno ha i suoi fantasmi nel cinema di Bellocchio. “Un film diverso dai precedenti, che forse somiglia un po’ a Buongiorno, notte – dice Bellocchio – perché i personaggi si chiamano con i loro veri nomi, ma lo sguardo è più esposto, all’esterno, i protagonisti sono spesso in pubblico, per esempio nel gran teatro del maxiprocesso di Palermo, trascurando quei tempi psicologici, quelle nevrosi e psicosi ‘borghesi’ che sono state spesso la materia prima di molti miei film”. E la sceneggiatrice, con Francesco Piccolo e Valia Santella, Ludovica Rampoldi, al lavoro su undici forse dodici stesure del copione, rivela: “Abbiamo preso vent’anni della parabola di Buscetta, dall’80 al 2000, trasformando la cronaca in epica e con tre punti cardinali: il tradimento, la teatralità per cui Buscetta è come un vecchio attore che replica uno stesso copione, e il rapporto con i figli. Da I pugni in tasca a Fai bei sogni, Bellocchio ha parlato molto dell’essere figlio, qui invece c’è la tragedia dell’essere padre. Di fronte a due figli perduti, uno eroinomane e l’altro delinquente, Buscetta non sa come opporsi al loro destino e li condanna a morte”. Prodotto da Kavac Film con IBC Movie e Rai Cinema, con coproduttori francesi, tedeschi e brasiliani, Il traditore esce oggi in Italia in oltre trecento copie con 01 Distribution.

Bellocchio, da cosa nasce l’attrazione per un personaggio come Buscetta: criminale, ma anche uomo avido di vita, e che ama stare al centro dell’attenzione come nelle interviste televisive di Enzo Biagi?

È stato uno dei produttori, Beppe Caschetto, a propormelo. Io non sapevo nulla di Buscetta se non quello che si legge sui giornali. Dopo mi sono documentato con i libri e ho incontrato persone che lo avevano conosciuto. Mi sono convinto studiando il personaggio, nel corso del tempo. La mia vita privata, apparentemente, è del tutto estranea alla sua vicenda e anche a Palermo, ai morti assassinati. Io vengo da Piacenza, dal Nord. Ma con gli sceneggiatori ci siamo progressivamente impadroniti di questa storia.

C’è un forte elemento di fascino, sia pure inquietante, nel suo Buscetta, certo anche grazie alla poliedrica interpretazione di Favino.

Buscetta non è un eroe, ma è un uomo coraggioso e il coraggio è una qualità che io non ho tanto. Rischia la propria vita, anche se non vuole essere ucciso senza un motivo e quindi si difende. Difende la sua vita, i suoi figli, la sua famiglia e poi la sua tradizione, è un traditore conservatore. Vuole difendere il suo passato, ad esempio gli piacerebbe tornare a Palermo, dove sa benissimo che non potrà più tornare perché lo uccideranno.

Quindi c’è un fascino criminale? Cosa non nuova al cinema, specie nel noir, ma nuova sicuramente nel suo cinema.

I personaggi che mi hanno affascinato sono stati sempre altri finora, legati alla mia cultura. Buscetta era un uomo ignorante e non si vergognava di esserlo. Non leggeva, a differenza di altri mafiosi che si erano dati a letture anche complicate, di filosofia. Amava la vita, tradiva la moglie pur amandola, in tutto questo era molto italiano. Però attraeva, aveva un carisma, questo sì.

Traditore rispetto a chi? A cosa? E’ una definizione che il personaggio respinge considerandosi anzi portatore di una fedeltà più radicale all’idea di mafia che ha nutrito. 

E’ un traditore rispetto a Cosa Nostra, rispetto alla famiglia a cui era stato affiliato. Tradire per Buscetta è una scelta molto dolorosa, che è anche un rifiuto di un certo tipo di mafia in cui lui è nato ma che ha fatto delle scelte che non condivide più. Non è un eroe, come ho detto, ma un uomo coraggioso. Ha nostalgia di una mafia che l’ha battezzato e cresciuto, non fa parte quindi dei traditori rivoluzionari, come Che Guevara, ma di quelli conservatori. Comunque anche io quando ho aderito al maoismo, rispetto alla tradizione cattolica della mia famiglia, in un certo senso ho tradito mia madre. .

Come si è misurato con la vasta filmografia di argomento mafioso?

La mia preoccupazione è stata quella di non fare un film convenzionale, però volevo che fosse un film popolare con una sua semplicità. I delitti andavano rappresentati ma con uno stile, una forma. Il cinema civile, che aveva una grande tradizione in Italia, è stato massacrato dalla televisione, oggi bisogna inventare. C’è appunto questa teatralità difensiva da parte di coloro che appartenevano alla mafia e che volevano che il maxiprocesso fallisse e poi c’è Buscetta che si contrappone con una sua teatralità opposta: lui e Calò sono come due attori che recitano due ruoli diversi.

E’ fondamentale, nel film, l’uso del siciliano come lingua incomprensibile, segreta, quella parlata da Totuccio Contorno nell’interpretazione di Luigi Lo Cascio, per intenderci, che colpisce ancor più proprio perché l’attore palermitano era stato Peppino Impastato all’inizio della sua carriera.

Nel film ci sono tante lingue diverse, il siciliano certo, ma anche l’inglese e il portoghese. C’è un aspetto linguistico importante. Il siciliano è una lingua meravigliosa, spesso storpiata, ridicolizzata, caricaturizzata anche dal nostro cinema e dalla televisione.

Che ricordi ha della sua presenza a Cannes?

Ricordo bene la prima volta che venni qui, per Il gabbiano nel 1977, aveva una versione su nastro magnetico, ma il nastro si ruppe e non venne mai proiettato. Mi dissero che era un film sfigato.  

Cristiana Paternò
23 Maggio 2019

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