Andrea Sartoretti: “Con Naderi sulle montagne russe di Pesaro”

L'attore è legatissimo a Naderi: con lui ha realizzato Monte. E adesso, insieme a Olimpia Carlisi, i due si sono ritrovati in giuria a Pesaro


PESARO – Un po’ di corsa per vedere i film sperimentali di Lee Anne Schmitt, la cineasta statunitense a cui la Mostra dedica una ampia personale, Andrea Sartoretti si sta godendo l’esperienza di giurato qui a Pesaro insieme al cineasta iraniano Amir Naderi e all’attrice Olimpia Carlisi. Nato a New York nel 1971, cresciuto in Francia fino a nove anni e poi approdato da Roma, l’attore è legatissimo a Naderi: con lui ha realizzato Monte, fuori concorso a Venezia 2016, un film estremo e vertiginoso, in cui interpreta un uomo che abbatte una montagna quasi a mani nude, in una lotta impari ma indispensabile per ritrovare la luce del sole. Per questo personaggio ha vinto un premio speciale ai Nastri d’argento e si è fatto notare dalla critica. 

E’ la sua prima volta a Pesaro?

Sì, per me questo festival è una montagna russa del cinema, a ogni curva c’è qualcosa di sorprendente. Sto vedendo di tutto, ancora mi manca il film in spiaggia, deve essere bellissimo stare lì sdraiato a guardare cinema.

Con Naderi avete un rapporto forte.

Monte è stato un film faticoso, ma mi ha dato una gioia enorme. Naderi è un regista esigente, ti chiede il sangue, ma ti dà tutto il sangue che ha in cambio. Quante possibilità hai di fare un film del genere con un regista iraniano, coerente, che non si è mai piegato a compromessi, che realizza un’opera quasi senza dialoghi, come poteva fare Dreyer. Siamo stati tre mesi a stretto contatto e mi sono reso conto che Monte è la vita di Naderi, è lui che ha tagliato la testa di una montagna per far passare il sole. E’ stato un bambino orfano che viveva per strada ed è arrivato dove è arrivato, al MoMA e al Centre Pompidou con la sua opera.

Com’è andato il vostro primo incontro?

Non ho fatto provini, Naderi non ne fa mai. Ci siamo incontrati 4/5 volte parlando del film. Mi toccava, mi tirava su i capelli per vedere se il mio profilo potesse diventare roccioso. Ti osserva, guarda come ti muovi, come recepisci le cose, ha bisogno di un contatto mentale.

Come si è preparato alla sfida del film?

Sono stato in Barbagia da solo, la Sardegna è un luogo che amo molto, mia madre ha origini sarde. Amir mi aveva detto che dovevo diventare una pietra, muovermi come una capra, uno stambecco. Siamo gente di città e si vede, allora bisogna osservare le persone che vivono a contatto con una natura selvaggia.

Cosa le ha lasciato il film: un senso di stordimento?

Ho vissuto una cosa talmente estrema che mi sono dovuto riprendere. Mi ha però insegnato quanto è importante che un artista sia libero.

A Pesaro c’è una retrospettiva dedicata al cinema di genere. Come lo concilia con la ricerca autoriale?

Per me tutto il cinema è di genere, è quello che cerco di fare io col mio lavoro. Ho fatto la commedia musicale con Lazotti e il film di guerra con Leonardo Tiberi. Con Romanzo criminale la serie ho praticato il gangster movie italiano. Mi mancano solo l’horror e il porno.

Lei ha lavorato molto nelle serie tv, cosa pensa del dibattito su Netflix e le piattaforme?

Io sono uno spettatore di cinema, nel senso che amo la sala. L’esperienza cinematografica in sala è unica. A casa non è la stessa cosa. Ti vengono i pensieri, ti alzi per prendere una cosa dal frigo, vai in bagno. In sala sei nella bolla. Se il film ti piace hai voglia di ripetere subito quella esperienza. E’ vero che oggi la tv ha superato a destra il cinema, ma sono momenti d’oro per tutta la produzione, il cinema non ha bisogno di imitare la tv. Anche Roma di Cuaron bisogna vederlo al cinema, come ho fatto io. La differenza non è tra piccolo schermo e grande schermo, ma tra stati d’animo.

Le piacerebbe lavorare all’estero?

Sarei felice di lavorare negli Stati Uniti ma come attore europeo, perché mi sento tale, un po’ come è capitato a Cassel. Per me il massimo sarebbe fare un film della Nouvelle Vague, anche se so che non è più possibile. Da ragazzo volevo essere Antoine Doinel, credo di aver visto 30 volte I 400 colpi.

Qual è il cinema italiano che predilige?

A Ciambra di Jonas Carpignano è un film eccezionale, lo dovrebbero vedere tutti. Infatti, Martin Scorsese se ne è accorto e l’ha prodotto. Eppure da noi è stato pochissimo in sala. Roberto Minervini è un altro autore bravissimo. Cosa hanno in comune? Riescono a fermare il qui e ora, il momento evanescente, ti fanno arrivare una secchiata di vita. Ma sono anche fan di Virzì, Sollima e Garrone. E penso che Call me by your name sia un grandissimo film.

A cosa sta lavorando?

Sto girando una serie diretta da Tavarelli con Maya Sansa, Alessandro Gassmann e Massimo De Francovich. Poi sta per uscire il film che ho fatto con Eros Puglielli, Nevermind, una commedia nera con Paolo Sassanelli, Giulia Michelini e Massimo Poggio, per me Puglielli è un genio come aveva dimostrato già con i suoi primi film Dorme e Il pranzo onirico, se fosse stato in Francia l’avrebbero osannato. In autunno girerò due opere prime di Marco Bocci e di Mauro Meconi. E infine ho in programma una serie con Ciarrapico e Vendruscolo, quelli di Boris.

Cristiana Paternò
19 Giugno 2019

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