Ascanio Petrini e il muro messicano di Trump

Tony Driver, esordio in gara alla Settimana della Critica, racconta di un italoamericano che, espulso dagli USA, prova a a scavalcare in Messico la barriera voluta dal presidente Trump


VENEZIA. Ce la farà il protagonista nella scena finale di Tony Driver, esordio di Ascanio Petrini presentato in gara alla Settimana della Critica, a scavalcare il muro di pali d’acciaio neri voluto dal presidente Trump per il confine tra Messico e Stati Uniti? Il paradosso è che il nostro antieroe è un italiano, all’anagrafe Pasquale Donatone, nato a Bari ma cresciuto in America.  A 9 anni, a metà degli anni ‘60, vola oltreoceano con la famiglia e cresce da vero americano. Tassista di professione a Yuma, viene arrestato a causa del suo “secondo lavoro”: trasportare migranti illegali negli Stati Uniti attraverso la frontiera messicana. È così costretto a scegliere: la galera in Arizona o la deportazione in Italia. Rientrato in Puglia, si ritrova a vivere solo in una grotta a Polignano a Mare e guarda l’Italia come un piccolo Paese immobile, senza opportunità. Ma il sogno americano è così forte da portarlo nella città di confine messicana con il fermo proposito di scavalcare il muro anti-migranti.

Il regista Petrini, 40enne pugliese, laureato con una tesi sul cinema porno, ama i grandi della cinematografia americana anni ’70 e ’80, da Scorsese a Coppola. “Sono cresciuto con quell’immaginario e non ho grandi amori del cinema italiano”. Ha scelto di inviare Tony Driver, distribuito da Wanted, alla selezione della Settimana della critica perché il delegato generale Giona A. Nazzaro aveva mostrato interesse al film al Milano Film Network, un festival per opere non ancora finite, che concorrono a premi per la postproduzione. Petrini ha presentato un promo di una decina di minuti, e ha vinto un premio e così anche al Trieste Film Festival.

Tony Driver è un’opera a metà strada tra il documentario e il film di finzione?

Avrei voluto dirigere un film di finzione, ma non avevo i mezzi, per cui ho fatto un documentario a metà. Un’opera ibrida che non pensavo di riuscire a realizzare. Del resto non mi piacciono i documentari, né il cinema del reale. Con il budget a disposizione, con gli elementi del documentario, che è un cinema più povero, ho cercato di fare quel mi piace, il cinema di finzione.

Girando questo suo esordio aveva dei riferimenti cinematografici ben presenti?

Se avessi rivisto le opere come Taxi driver prima girare avrei fatto un sacco di errori, avrei scimmiottato il western per il semplice motivo che stavo andando a girare in Arizona. Ho cercato di cancellare tutto questo e seguire il ‘quid’ di Pasquale che è un personaggio nuovo che porta una storia raccontata nella sua maniera.

Che rapporto c’è stato con Tony?

Ho studiato Pasquale per mesi, la prima idea era di costruire un film di finzione sulla sua vicenda, poi quando mi sono reso conto che il protagonista che avevo tra le mani valeva di più di un attore che reinterpretasse le sue parti, ho pensato di girare il documentario avendo a disposizione solo 4 settimane. All’inizio con il proposito di fare un film di finzione, utilizzavo la camera come una memoria virtuale che registrava il suo racconto. Poi vedendolo come si muoveva l’ho trovato bello e originale, non sembrava un attore eppure si comportava come tale. Mi sono detto che forse si poteva girare un film con lui protagonista e così ho realizzato un piccolo promo con delle immagini da youtube e da queste mie lunghe interviste in cui ho dato l’idea del film che sarebbe stato. Da lì è cominciato il percorso produttivo.

Un volto e un corpo che bucano lo schermo?

Ho trovato Tony un animale cinematografico. Così nella scena del pub messicano con Nora, non gli ho detto nulla, io l’ho solo messo seduto vicino a quella donna e non ho fatto altro. Lui essendo se stesso ha portato a casa un’ottima scena.

I migranti rischiano la vita per sbarcare in Italia, Tony al contrario vuole fuggire dal nostro paese. Una situazione insolita.

Il racconto che i media fanno dell’immigrazione e dei confini è sempre rivolto alla pancia dello spettatore, è giocato sulla drammaticità dell’evento, così la vicenda dei bambini che al muro vengono separati dalle madri con Trump riempie le prime pagine dei giornali. Questo è il caso eccezionale, ma la quotidianità di tutte queste persone che vogliono oltrepassare un muro è fatta di cose più semplici, più leggere. Ed è proprio grazie a Pasquale che ho visto quel mondo in modo più lieve come se si trattasse di un problema normale.

La difficoltà più grande incontrata sul set?

L’unica difficolta più grande è stato il clima caldo. Per il resto abbiamo lavorato in modo legale, rispettando sempre le regole, avevamo un coproduttore messicano che ci ha messo nelle condizioni di poter lavorare serenamente negli USA.

Ha dovuto tralasciare qualcosa d’importante che aveva girato?

Ho sacrificato il periodo della gioventù a Chicago, nel film è condensata in un piccolo inserto in cui lo vediamo crescere da bambino ad adulto, avrei approfondito di più quella parte, e il film sarebbe durato un quarto d’ora di più. Avevo il materiale, ma sono al primo film, volevo puntare all’essenziale, del resto odio quando lo spettatore si distrae.

Il finale è affidato a uno sconosciuto brano musicale, di che si tratta?

Il brano è di Pier Giorgio Farina “Basta così”, che è stato la colonna sonora di un B-Movie, uno spaghetti western italiano degli anni ’70, composta da una grande autrice, Orlandi. L’ho trovato su youtube, un brano che non ha etichetta, di cui non puoi comprare il disco, però aveva un messaggio di fondo grazie a una frase: “Uomo ricordati che non si può vivere senza amore”. E’ il concetto principale del film, perché quando ti tolgono tutto, dai valori materiali a quelli morali, dalla patente di guida all’identità, l’unica cosa che ti resta è la memoria nella quale ci sono i sentimenti, i ricordi che sono quello che ci spinge ad andare avanti.

Stefano Stefanutto Rosa
03 Settembre 2019

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