Carolina Rosi: mio padre un regista dalla schiena dritta

Citizen Rosi di Didi Gnocchi e Carolina Rosi, distribuito da Luce Cinecittà, è un viaggio dentro il cinema di denuncia e di impegno civile firmato da Francesco Rosi


VENEZIA. Un viaggio dentro il cinema di denuncia e di impegno civile con il quale Francesco Rosi (1922-2015) ha raccontato in profondità trent’anni della storia civile e politica dell’Italia. Citizen Rosi di Didi Gnocchi e Carolina Rosi, presentato in Fuori Concorso Non Fiction, è prodotto da Andiamo Avanti Productions e 3D Produzioni con Istituto Luce Cinecittà che lo distribuirà in autunno, e anche Sky Arte lo manderà in onda. Il racconto si snoda attraverso i film più politici di Rosi – Salvatore Giuliano, Il Caso Mattei, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti, Le mani sulla città, La sfida – messi in fila non nell’ordine in cui sono stati girati, ma in base alla precedenza storica dei fatti di cronaca che raccontano.

In questo modo, il documentario, non racconta solo il lavoro di Rosi, ma restituisce anche mezzo secolo della storia d’Italia. E il racconto attinge a sequenze di film, al ritorno ai luoghi dove Rosi girò, a interviste dello stesso regista, al repertorio storico e giornalistico. E parlano esponenti della cultura, del giornalismo e della magistratura come Roberto Saviano, Giuseppe Tornatore, Nicola Gratteri, Raffaele La Capria, Giancarlo De Cataldo, Marco Tullio Giordana, Nino di Matteo, Gherardo Colombo, Furio Colombo, Roberto Andò, Vincenzo Calia e Lirio Abbate.

Ad accompagnarci in questo viaggio tra il cinema e i misteri d’Italia è la figlia Carolina, testimone fin da bambina del lavoro del padre, che ha assistito con amore e pazienza fino alla morte. Carolina è filmata nella casa che fu del padre e nello studio appena ricostruito, lei tra le fotografie, i ritagli di giornali, i libri. Ci sono anche alcune brevi sequenze realizzate con una piccola telecamera amatoriale che doveva essere di puri appunti, nelle quali la figlia rivede tutti i suoi film insieme al padre qualche tempo prima della sua scomparsa.

Che metodo avete scelto per raccontare Rosi regista?

Carolina Rosi. Abbiamo cercato di mettere i fatti narrati insieme a mio padre che racconta se stesso per ottenere un film che sia fruibile da un vasto pubblico, perché tutto è estremamente chiaro, privo di ambiguità. Mi piacerebbe che fosse visto dalle giovani generazioni.

Didi Gnocchi. Abbiamo seguito il suo metodo, lui metteva in fila i fatti, noi lo abbiamo fatto con i suoi film, non nell’ordine in cui sono stati girati, ma nell’ordine cronologico che rispetta quello che è accaduto nel Paese. Così ci siamo ritrovati nella vicenda di un uomo che credeva profondamente nella democrazia, che aveva capito che la democrazia di per sé è imperfetta, che va continuamente nutrita e va difesa dai tanti attacchi che ogni giorno subisce. Lui raccontava il potere che si corrompe quando viene in contatto con i poteri criminali e cercava di mettere in risalto gli anticorpi che le democrazie ogni volta devono attivare per salvare l’essenza.

Come preparava i suoi film?

Didi Gnocchi. Rosi era un lavoratore pazzesco, preparava i film raccogliendo una mole spaventosa di documenti che abbiamo poi trovato nel Museo del cinema di Torino. Abbiamo scoperto la complessità di ricerca che stava dietro la semplicità del racconto, perché era nel contempo intellettuale, giornalista e artista. Dal punto di vista giornalistico abbiamo lavorato su nuove fonti. Abbiamo potuto ad esempio accedere per il film ai documenti desegretati relativi allo sbarco angloamericano in Sicilia, mentre Rosi era giunto alle stesse conclusioni con il materiale e le interviste che aveva raccolto, prospettando scenari che, come dice Tornatore, a tutt’oggi sono ‘a tenuta stagna’. Perché i film di Rosi non riconcorrono la verità del momento ma raccontano gli scenari sociopolitici di un’epoca.

E sul set che regista era?

Carolina Rosi. Da Visconti aveva imparato la poesia e l’estetica dell’inquadratura, aveva una grande consapevolezza della cinepresa. Sul set era un regista attento e rigoroso, sapeva quello che doveva girare ed era molto legato alla sua troupe tecnica, tanto da aver rinunciato ad alcuni film non avendola accanto. Con gli attori si svolgeva prima girare una preparazione teatrale. Soprattutto non rinunciò mai a un senso del dovere perché il suo cinema avesse una funzione sociale.

Come era nella vita?

Carolina Rosi. Un uomo estremamente severo, rigoroso, mi riferisco all’educazione, che ha cercato di tramandare i valori in cui credeva, ma un padre di una dolcezza, di una amorosità. Avevamo un rapporto molto bello, mi manca molto.

Didi Gnocchi. A un certo punto Rosi si è ammalato e Carolina ha continuato a vedere i film, nell’ultimo anno della sua vita, insieme a lui in questo modo molto tenero, ho filmato ore ed ore di questi dialoghi teneri e polemici.

Come mai nel documentario questa scelta precisa dell’impegno civile e della denuncia?

Carolina Rosi. Non volevamo fare un documentario biografico, anche perché era appena uscito il libro di Giuseppe Tornatore che ripercorre in maniera biografica la sua vita e i suoi film. Rivedendo i suoi film, soprattutto uno dietro l’altro, è inevitabile chiedersi che cosa è successo a questo Paese, questi film sono serviti a qualcosa? Possiamo partire da quei film per parlare dei malesseri del Paese. Perciò abbiamo voluto che nel film interagissero non dei cineasti che analizzano il suo cinema, ma dei giornalisti e dei magistrati.

Perché questo titolo del documentario?

Didi Gnocchi. Questo documentario ha un titolo che riassume il senso di questo lavoro. Il magistrato Vincenzo Calia dice che Rosi era un cittadino, aveva la schiena dritta. Ecco questo è il percorso: diventare sempre più cittadini e sempre meno sudditi. Nel finale del film Carolina cita questa frase del compositore Bernstein: creare un’opera è come costruire una democrazia. Ogni giorno devi cambiare il direttore d’orchestra, una nota, per ottenere la perfezione, è una costruzione continua. E così è la democrazia. E il dovere che aveva Rosi di continuare questa missione è poi il senso di questo nostro documentario.

Come Rosi avrebbe raccontato l’Italia di oggi?

Didi Gnocchi. Nell’ultimo film progettato Rosi avrebbe incontrato nella masseria dove aveva girato I tre fratelli una serie di amici come storici, giornalisti, magistrati per fare il punto di dove stava il Paese. Noi abbiamo cercato di partire anche da quella sua idea, anche se all’inizio del nostro lavoro non la sapevamo.

Nel panorama odierno vedete un erede di Rosi? Molti lamentano la mancanza di un cinema dominato dal senso civile, siete d’accordo?

Carolina Rosi. Pensavo di no, poi sono arrivata alla conclusione che la censura oggi è più dura rispetto a prima. Credo che anche se ci fossero degli autori pungenti come Rosi, non potrebbero affermarsi perché tanti sono i filtri che i prodotti degli autori più impegnati subiscono.

Didi Gnocchi. I registi come Rosi e altri del suo tempo si davano un ruolo etico, oggi la maggior parte degli autori non se lo pongono, si è persa questa cosa. Vediamo serie tv, film dove l’obiettivo è la spettacolarizzazione, vediamo opere perfette dal punto di vista estetico. In Salvatore Giuliano Rosi fa la scelta di non mostrare il viso del bandito per non contribuire a creare un mito. Esattamente il contrario di quello che viene fatto oggi dove le figure negative vengono proposte senza giudizio, senza contrapposizione. Sicuramente Rosi aveva molto chiara quale era la missione del regista.

Stefano Stefanutto Rosa
05 Settembre 2019

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