Giuliano Fratini: “Il dono di Tarkovskij? La sua anima rivoluzionaria”

Il dono di Giuliano Fratini, presentato in anteprima italiana alla 31esima edizione del Trieste Film Festival, è un documento intimo alla scoperta di un maestro


TRIESTE – Procede come un’indagine investigativa, Il dono, quasi a voler almeno in parte risolvere un misterioso giallo i cui elementi sono lo spionaggio, la fuga, la religione, la politica. E il cinema, naturalmente. Ma il documentario di esordio di Giuliano Fratini, presentato in anteprima italiana alla 31esima edizione del Trieste Film Festival dopo la prima mondiale al Bafici di Buenos Aires lo scorso aprile, è anche un documento intimo dell’autore, emotivamente coinvolto nel percorso di ricerca che lo accompagna alla scoperta di una storia occultata per decenni e che ha per protagonista una colonna della storia del cinema mondiale come Andrej Tarkovskij.

Dopo l’uscita del film Nostalghia, esaurito il permesso delle autorità russe di poter soggiornare e lavorare all’estero, il regista avrebbe dovuto fare rientro in patria, ma i rapporti con Mosca erano tutt’altro che distesi. I segnali di insofferenza apparivano chiari, a cominciare da quei finanziamenti al film che furono ritirati, a dimostrazione di un clima di tensione che, nonostante i prestigiosi riconoscimenti internazionali raccolti all’estero, si sarebbe ulteriormente inasprito quando il regista fosse tornato a casa. Non resta che prendere una decisione dolorosa, ufficializzata un anno dopo, nel 1984, durante una conferenza stampa a Milano: Tarkovskij resta in Italia e per un periodo trova rifugio in una località nascosta, una sorta di Zona segreta nei pressi di Tivoli, nel tentativo di sfuggire al controllo e alla pressione del KGB anche in terra straniera.

Inizia così, nel giugno del 1983, il suo soggiorno nel paese di San Gregorio di Sassola, suggestivo borgo medievale nel quale il cineasta era alla ricerca di una serenità perduta e in cui soggiornerà per più di un anno. Qui porterà a termine scritti fondamentali come Scolpire il tempo, l’adattamento teatrale del Boris Godunov e la sceneggiatura di Sacrificio, il suo testamento cinematografico. Raccogliendo le voci illustri di chi è stato al fianco del maestro in quel periodo difficile (tra questi il direttore della fotografia Giuseppe Lanci, Renzo Rossellini, Krysztof Zanussi, Ali Chamraev, Luciano Tovoli), del figlio Andrei e insieme quelle più semplici degli abitanti del paese, persone che Tarkovskij apprezzava per la loro sincera spontaneità, Fratini compone un mosaico di testimonianze che insieme forniscono elementi inediti sull’esilio italiano e sull’ultima fase della vita del grande cineasta.

Giuliano Fratini, come e quando si è imbattuto in questa storia?

Cercando notizie su Marlen Chuciev. Ma devo fare una premessa e tornare per un attimo alla mia infanzia, trascorsa in una famiglia molto cattolica da cui cercavo di smarcarmi perché vivevo la religione come una forma di oppressione. All’epoca casa mia era frequentata da un sacerdote di San Gregorio che veniva spesso a farci visita. Si chiamava Don Andrea. Don Andrea di San Gregorio. Molto tempo dopo, come dicevo, stavo cercando del materiale su Marlen Chuciev, mio regista del cuore su cui ho scritto la tesi di laurea e anche un maestro per Tarkovskij. Erano i primi anni di internet, a cavallo del 2000, e non si trovava niente. Un giorno in libreria trovai questo tomo imponente: un diario di Tarkovskij intitolato Martirologio all’interno del quale c’era una foto in cui erano ritratti Andrej e la moglie Larisa sul balcone della sua casa a San Gregorio. Fu una specie di shock. Un luogo della mia infanzia, a pochi chilometri da casa. Mi tornò in mente Don Andrea, noto in paese per sapere tutto di tutti, e cercai di contattarlo per saperne di più. Ma con mia estrema sorpresa non ricordava nulla. È probabile che all’epoca fosse già stato trasferito altrove. Ma mi suggerì il nome di alcune persone a cui avrei potuto chiedere notizie. E così è partita la ricerca.

E cosa ha scoperto?

Ho scoperto questa storia di cui nessuno sapeva nulla. Tarkovskij aveva comprato un rudere, una scelta che può persino apparire macabra. Ho immediatamente pensato a La Zona. Come se avesse voluto ricostruire o ritrovare una Zona, come in Stalker. Una casa disabitata nel bosco. Lui l’ha comprata e la stava mettendo a posto, nel frattempo abitava in affitto in un’altra casa. Ci ha vissuto per un anno e mezzo, tra Nostalghia e Sacrificio. Poi andò a girare in Svezia e da lì viaggiò a Parigi, dov’è morto nel 1986. Avremmo dovuto mettere una targa su questa abitazione e creare un piccolo evento quattro anni fa, nell’anniversario della sua morte. Ma in assenza di finanziamenti ho deciso di realizzare un documentario su questa vicenda di cui nessuno sapeva nulla. In seguito ho capito perché. Man mano che proseguivo nelle ricerche usciva sempre fuori la presenza dei servizi segreti. Chiaramente Tarkovskij a San Gregorio cercava di sfuggire al Kgb.

Per questo ha scelto di dare al documentario l’andamento di un’indagine investigativa?

Perché sono sempre stato intrigato dalle teorie di Zavattini sul cinema colto sull’istante, sul cinema inchiesta, in qualche misura lui si ispirava a Dziga Vertov. Ed ecco che torna a fare capolino il cinema sovietico. Io volevo fare un documentario di stampo zavattiniano. Volevo sentire le persone che avevano vissuto questa storia, raccogliere le testimonianze nel paese. Ma qualcuno mi sconsigliava di procedere in questa direzione, un produttore mi disse: “devi intervistare i filosofi, gli intellettuali”. Invece io volevo dare un taglio diverso al mio film. È stata risolutiva una registrazione della Conferenza di Rimini del 1985 in cui Tarkovskij accenna proprio a San Gregorio, senza nominarlo. Parla di questo “paesino vicino a Tivoli”, e in quell’occasione parla dei contadini, delle persone che avevano preferito la campagna alla città. E dice una cosa fondamentale: che la verità non appartiene agli intellettuali, ai filosofi o all’intellighenzia, ma agli umili, alla povera gente. Un pensiero tipicamente dostoevskiano che smentisce la teoria su Tarkovskij come poeta, come autore di cinema “alto”. Che ci può anche stare, ma io volevo far scendere Tarkovskij sulla terra, desacralizzarlo. Lo riferisce Zanussi, a un certo punto del mio documentario, quando Andrej, già malato, dice: “Io non voglio essere ricordato come un monumento, ma come un peccatore”. Ecco io ho cercato di fare questo. Raccontare l’uomo, l’artista, che come tutti i grandi artisti non era un santo. Un uomo di nobili origini che decide di vivere in un rudere, in un paese sconosciuto, come una persona comune.

In questo senso afferma che il suo sia l’unico film politico su Tarkovskij?

Sì, perché quando si parla di Tarkovskij non si allude mai ai suoi problemi con la Russia, al Kgb, ai servizi segreti. I documentari su di lui li ho visti tutti. Sokurov, Marker, Baglivo. Ma nessuno parla di questi aspetti.

Cosa è cambiato nel cinema di Tarkovskij dopo aver lasciato la Russia e in che modo questa scelta si è riverberata nel suo cinema?

In tanti considerano Stalker il suo film migliore. Appartiene all’ultimo periodo russo ed è forse l’apice del suo cinema. Dopo aver lasciato la sua patria, per molti, Tarkovskij, diventa un autore noioso, anche se non sono d’accordo con questa affermazione. Per Zanussi, ad esempio, Nostalghia e Sacrificio sono i suoi film migliori. Però qualcosa è cambiato. Lui, come ogni artista russo, è profondamente legato alla sua terra. L’allegoria del poeta in Nostalghia è evidente. Parla di sé. Inizia la fase più difficile, sofferta e anche la più grande, perché ogni artista che si mette in gioco fuori dal suo paese di origine, diventa internazionale. Chuciev magari è il mio regista preferito, lui però è rimasto in Russia ed è dovuto scendere a compromessi con il regime. Tarkovskij è andato via e con questa scelta si è consegnato al mondo. La sua poetica non può non risentirne. I suoi film hanno un umore diverso, è un esule, deve fare i conti con il suo sradicamento.

Come mai è così legato a questa vicenda?

In questo film volevo anche raccontare me stesso, una storia che appartiene a me e alla mia famiglia: i miei luoghi, il cattolicesimo, il rapporto con la religione, le origini. Ma ovviamente non potevo ammorbare lo spettatore con la mia storia. Tarkovskij diceva che tutta la creatività di una persona ha origine nell’infanzia e in ciò che si è vissuto nei primi anni di vita e mi ritrovo molto in questa teoria. Si è molto influenzati dalle nostre prime esperienze. Io sentivo forte l’incombere della religione. Ma mentre io fuggivo dalla religiosità oppressiva e familiare, Tarkovskij da Mosca si avvicinava alla Democrazia Cristiana e a Comunione Liberazione. Qualcosa strideva. Tramite Tarkovskij ho riscoperto una religiosità da cui fuggivo. Forse non solo attraverso di lui. Nella musica, nell’arte, nella letteratura e anche altri registi, che scappavano dall’oppressione comunista. Il problema è di rappresentazione. Fuggiamo da qualcosa che ci viene posta male. Paradjanov è più impregnato di religiosità rispetto a Ermanno Olmi o Pupi Avati. Ho voluto provare a sintonizzarmi su questi sentieri, raccontando al contempo una storia inedita.

Cosa le ha lasciato questo lavoro di ricerca?

Inizialmente stress e fatica, poi la soddisfazione di aver portato a temine da solo un progetto che avrebbe potuto rimanere nel cassetto. Oltre al fatto di aver scoperto, lavorando a questo film, una cosa speciale: la vicinanza con Andrej Tarkovskij. Credo di aver conosciuto la sua anima, la sua semplicità, la sua grandezza radicale e rivoluzionaria.

Beatrice Fiorentino
24 Gennaio 2020

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