Diritti e Germano: Ligabue, uno di noi

Giorgio Diritti è in concorso a Berlino con Volevo nascondermi, in sala dal 27 febbraio con 01: un film dal forte impatto visivo e un atto d'amore per Antonio Ligabue


BERLINO – Emarginato fin da bambino, storpio, affetto da gotta e rachitismo, quintessenza dell’apolide – per gli svizzeri era un trovatello italiano per gli emiliani “el tudesc” – Antonio Laccabue, detto Toni Ligabue (1899-1965), passato alla storia per la sua arte potente e naif, ha spesso affascinato altri artisti che l’hanno portato a teatro o sullo schermo, come nella celebre serie tv di Salvatore Nocita con Flavio Bucci del ’77. Adesso tocca a Giorgio Diritti con Volevo nascondermi, in concorso al Festival di Berlino e in sala dal 27 febbraio con 01: un film, scritto con Tania Pedroni e Fredo Valla, dal forte impatto visivo, uno studio di relazioni sociali e umane, un atto d’amore per quest’uomo tartassato dalla sorte ma anche dotato di un dono incredibile per il disegno e il cromatismo. E con al centro un’interpretazione straordinaria, quella di Elio Germano

Toni lo incontriamo bambino, in Svizzera. La madre biologica, italiana, l’ha abbandonato e una coppia anziana l’ha preso in affido. Bullizzato dai compagni, incompreso da tutti, finisce per essere espulso e spedito a Gualtieri in Emilia. Vive da barbone sulle rive del Po, in una capanna, finché lo scultore Renato Marino Mazzacurati e sua madre non lo accolgono in casa dandogli la possibilità di esprimere la sua arte, il suo mondo interiore fatto di tigri e giaguari ma anche di paesaggi familiari. La sua animalità, il suo essere anarchico e selvaggio, vanno insieme al desiderio profondo di essere amato e accettato e, fino alla fine, all’aspirazione ad avere una moglie, una casa. Elio Germano – presente anche in Favolacce dei gemelli D’Innocenzo – dà al personaggio una palette di emozioni primordiali, rabbia, disperazione, gioia fanciullesca, ingenua ostentazione della fama raggiunta negli alti e bassi del suo percorso, tra ricoveri in ospedale psichiatrico e corse in motocicletta (aveva la passione dei motori, una collezione di moto spesso scassate, appena conquistò un po’ di successo volle la macchina con l’autista). Sullo sfondo l’Italia fascista che esclude l’uomo improduttivo e senza famiglia, ma che viene scavalcata da gesti di solidarietà individuali e una Pianura Padana cinematograficamente impeccabile per atmosfere e geometrie. 

Diritti, al suo quarto film dopo Il vento fa il suo giro, L’uomo che verrà e Un giorno devi andare, cerca di espandere la prova d’attore di Germano creando una narrazione in qualche modo collettiva e quasi documentaristica, un intero territorio è raccontato con amore (e la Regione Emilia Romagna ricambia con convinzione, tanto che il presidente Stefano Bonaccini è a Berlino ad accompagnare il film, insieme alla Film Commission che ha sostenuto la produzione firmata da Palomar e Rai Cinema). Per uno dei produttori Carlo Degli Esposti: “il film racconta una società povera ma inclusiva, dove un diverso come Ligabue ha trovato una dimensione all’interno di un tessuto sociale. Una cosa che è importante ricordare in questi giorni”. Per Diritti “è sempre stato ai margini, considerato un migrante, con evidenti paralleli con l’oggi”. E Tania Pedroni parla di narrazione “non lineare per entrare dentro la vita di Ligabue cercando di aderire ai suoi stati emotivi, alla sua mente sofferente”.

Il film è una lettera d’amore a Ligabue per Diritti, che esordisce nell’incontro stampa proprio portando a tutti i saluti di Toni, “certamente sarà contento di questo momento, è un ulteriore riconoscimento alla sua straordinaria, particolare, folle, disperata e sofferente vita”.

Diritti, da cosa nasce la fascinazione per questo personaggio?

Sicuramente ci sono tantissimi livelli. E’ un uomo che è partito in salita, abbandonato a Zurigo dalla madre, adottato da una famiglia che l’ha preso con sé più che altro per godere del sussidio, ha avuto gravi difficoltà affettive oltre che fisiche. Soffriva di rachitismo e di misofonia, un disturbo cerebrale che rende certi suoni, come la tosse, insopportabili, era una persona che faticava a vivere ma che ha avuto la possibilità di trovare nell’espressione artistica qualcosa a cui attaccarsi con tutta la sua determinazione, fino ad essere riconosciuto. Avrebbe potuto suicidarsi, ma ha continuato a lottare e credere. Nella favola di Ligabue ognuno di noi può trovare spunti importanti perché tutti ci siamo sentiti emarginati. La fragilità in lui diventa una forza.

Perché avete scelto di puntare tanto sulla somiglianza fisica nella costruzione del personaggio appoggiandovi al complesso lavoro della prostetica come del resto ha fatto Gianni Amelio per Favino/Craxi in Hammamet?

Diritti. La pesantezza del disagio fisico è importante, renderla concreta e visibile serve molto al film. Non si sente la puzza che probabilmente emanava, ma possiamo quasi immaginarla e capire quale effetto lui avesse sugli altri.

Germano. La prostetica è una grande possibilità che ci viene offerta, oltre ad essere un’eccellenza nel nostro paese. Noi siamo stati i primi a usarla per tutto il film, già due anni fa. Ci volevano tre o quattro ore al giorno per il trucco, un sacrificio che però mi ha permesso di vivere la sua umanità al di là di quello che il suo corpo trasmetteva, senza esasperare la recitazione. Non pensate che io sia il protagonista, protagonisti sono tutti quelli che si avvicinavano a lui come a uno scarto, un essere repellente. Lui è l’ultima comparsa delle vite delle persone intorno.

Come mai la scelta del dialetto nei dialoghi?

Diritti. Il dialetto per me rappresenta una dimensione di autenticità e di verità. Le lingue sono uno degli elementi di identità delle nazioni e delle comunità. In questo caso ho mescolato il dialetto emiliano e lo svizzero tedesco. Questa cosa per me è stata naturale perché anche gli altri miei film hanno la compresenza di più lingue. La lingua può allontanare o avvicinare, ma diventa indifferente se si entra in una relazione profonda tra due persone che si guardano negli occhi e si sorridono.

Quali sono state le vostre fonti?

Diritti. Gli archivi fotografici e i racconti delle persone che hanno conosciuto Ligabue o comunque ne hanno sentito parlare. Ho potuto raccogliere molti aneddoti, a volte bisognava distinguere tra le circostanze vere e quelle inventate.

L’Emilia Romagna è presente in questa narrazione, oltre che con il suo dialetto, anche con il cibo, i costumi delle persone, i modi di essere.

Germano. Ligabue metteva sempre nei suoi quadri il territorio, il Po, la vegetazione che diventava quasi una giungla. Quella è una zona anche ostile dove può fare un grande caldo o un grande freddo. Nei suoi quadri c’è questo e ci sono le battaglie degli animali, che sono i suoi animali interni, un modo di rappresentarsi e di difendersi dagli altri e poi i castelli tedeschi della sua infanzia. Il territorio è un altro modo per raccontare Ligabue. Poi abbiamo incontrato tante persone che l’hanno conosciuto, ho visto le sue poche interviste in video, c’è un’aneddotica straripante. Ci sono cose al limite del verosimile. Data la complessità di questo artista ci siamo sentiti un po’ più piccoli, abbiamo fatto sì che Ligabue venisse fuori da solo con un lavoro quasi medianico.

Diritti. La sua pittura cercava di sconfiggere i demoni, aveva le sue scaramanzie. Abbiamo cercato di assecondare il suo ritorno sulle scene, aprendoci alla sua personalità imprevedibile, distruttiva, divertente, drammatica. Questo essere umano siamo noi, la parte più fragile di noi, che diventa la cosa su cui puntare. Quello che noi cerchiamo di nascondere può diventare la nostra chiave di esistenza. Di lui siamo ancor qui a parlare, di tanti uomini forti e tutti d’un pezzo no, sono stati dimenticati. Insomma, è un inno alla fragilità che in questa epoca storica va così poco di moda.

Avete tenuto conto dell’interpretazione di Flavio Bucci, l’attore da poco scomparso che fu Ligabue nello sceneggiato di Nocita.

Germano. Purtroppo no. Non ho guardato niente, neanche i vari spettacoli teatrali, i fumetti. Mi sono affidato alle testimonianze di prima mano. Flavio Bucci mi fa piacere ricordarlo per la sua poliedricità, l’umanità messa in gioco tante e tante volte, non è bello schiacciare un attore su un solo ruolo.

Diritti, come ha lavorato sul piano visivo?

Le immagini sono emerse dal territorio e guardando i suoi quadri. Le sue opere sono specchio della sua dimensione interiore. Ho immaginato che si nutrisse di quello che aveva intorno. Ho usato il grandangolo per far sentire grandi gli spazi e lui piccolo. E’ un percorso narrativo ma anche emotivo.

La biografia d’artista è un genere molto praticato, ultimo in ordine di tempo Van Gogh sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel. Come si è rapportato a questi precedenti?

Diritti. Non ho avuto particolari riferimenti. Volevo che la persona uscisse per la sua energia e determinazione.Ho guardato il lavoro di Nocita solo dopo aver scritto e giusto per verificare che avessimo fatto percorsi diversi, che non ci fossero ripetizioni. La serie di Nocita è un grande lavoro, specie per quegli anni. Ma non mi sono voluto confrontare con i precedenti anche perché a me interessa l’uomo insieme all’artista. Sento il mio film diverso rispetto a Van Gogh di Schnabel, semmai se proprio devo trovare qualche similitudine la trovo in Turner di Mike Leigh. Sono andato di pancia più che di testa. Il mio primo incontro con Ligabue è stato nei miei sogni o quando l’ho visitato al cimitero di Gualtieri. Ho sentito che c’era reciproca fiducia. 

Cristiana Paternò
21 Febbraio 2020

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