Ferrara & Dafoe: “Insieme nel cinema puro”

Un uomo isolato dal mondo che viaggia nel suo universo interiore e un pesce parlante. Sono questi i due elementi chiave di Siberia, il nuovo film di Abel Ferrara in concorso a Berlino


BERLINO – Un uomo isolato dal mondo che viaggia nel suo universo interiore e un pesce parlante. Sono questi i due elementi chiave di Siberia, il nuovo film di Abel Ferrara in concorso a Berlino. “Dopo aver girato Pasolini, mi sono messo a riflettere e sono cominciate ad arrivare delle immagini assurde, fuori dalla civiltà urbana e moderna. Questo mondo alla Jack London, popolato da cani da slitta, mi ha portato a viaggiare attraverso luoghi selvaggi. Invece di scrivere una sceneggiatura, ho cercato di fissare le immagini nella memoria, per creare un’esperienza vitale per il pubblico e proseguire la mia ricerca che, di film in film, va sempre più a fondo nel lato oscuro”.

Così Abel Ferrara parla della genesi di questo film visionario, con al centro la presenza di Willem Dafoe nel ruolo di Clint, un uomo che vive in una baita su una montagna isolata nel gelo perenne. Gestisce una specie di piccolo bar dove si fermano i viandanti per un goccio di vodka o un tè caldo. Ma ben presto appare chiaro che gli incontri e le immagini sfuggono a ogni logica razionale e seguono piuttosto l’andamento di un sogno, o meglio di un incubo, vertiginoso e inarrestabile. Clint è totalmente immerso nella sua mente abitata da demoni del passato, nel ‘samsara’ come direbbero le religioni orientali: ecco allora la ex moglie, il figlio piccolo, i genitori – suo padre che lo portava a pescare, la madre – suo fratello, le donne desiderate e possedute. Clint parte su una slitta trainata da cinque husky in un viaggio alla ricerca di se stesso che si muove tra il Tarkovskij di Stalker e l’ultimo Terrence Malick

“La mia unica priorità – ci racconta Ferrara – è cercare di riconciliarmi col passato, una cosa importante per ciascuno di noi, che riguarda anche le nostre potenzialità future. Oltre a Jack London, c’è anche Solgenicyn, però non tanto il periodo della deportazione, quanto la descrizione del suo rapporto con la natura e col mondo animale”.

Al sesto film insieme a Willem Dafoe a partire da New Rose Hotel, la collaborazione tra i due artisti è quasi simbiotica. “Ogni film è diverso, l’approccio di Tommaso era totalmente altro – spiega l’attore – Abel mi chiama all’inizio del processo creativo e chiede il mio contributo nella scrittura. Tra noi c’è amicizia e collaborazione, una comprensione immediata. Abel poi ha il senso del gruppo, della famiglia creativa, il suo modo di lavorare ricorda quello di una compagnia teatrale”. Siberia, prodotto da Vivo Film e Rai Cinema, sarà in sala con Nexo Digital dal 20 agosto.

Willem, lei è quasi un alter ego del regista, permette a Ferrara di realizzare film molto personali che, al di là della banale cifra autobiografica, sono scavi sempre più profondi nell’interiorità.

Dafoe. Non credo di essere un alter ego, piuttosto sono una creatura della sua immaginazione. Non c’è autoanalisi o confessione personale. In Siberia, Abel ha messo sul piatto certe cose che voleva analizzare e abbiamo cominciato a vedere come si poteva farne un film. Non si tratta solo di raccontare una storia, ma di offrire un’esperienza immediata allo spettatore. Come diceva Tarkovskij: “il cinema è un luogo dove espandere l’esperienza”.

Ferrara. Forse sono io l’alter ego di Willem e non lui il mio. Potremmo anche scambiarci di abito. C’è una sorta di osmosi, dentro un patto teatrale. Ma in Siberia c’è una narrazione vera e propria: la neve, i cani.

Nel suo ultimo film, Tommaso, lei parlava di un uomo perseguitato da incubi e fantasmi interiori. Siberia a suo modo prosegue quel discorso?

Ferrara. Non c’è dubbio. A dire il vero avevamo cominciato questo film, poi abbiamo realizzato Tommaso, poi abbiamo ripreso con Siberia. Si può dire che ci abbiamo lavorato in parallelo.

In un film come questo dove abbondano le visioni, i sogni, quanto spazio viene lasciato all’improvvisazione?

Dafoe. È tutto improvvisazione. È una continua ricerca di soluzioni perché lavoriamo con un testo ridotto all’osso. Nel caso di questo film io mi sono trovato solo in mezzo alla natura, immerso nel paesaggio, solo o in presenza di attori non professionisti o di animali. Ci sono stati elementi di variabilità più complessi da gestire rispetto al passato: gli animali, i cani, il meteo.

Ferrara. Penso però di aver spinto tutti noi in quei luoghi, in quegli ambienti, per costringermi da un lato ad essere più organizzato e per affinare la capacità di ciascuno di improvvisare e operare in quella situazione estrema, perché quando ti trovi con temperature sotto zero e ti si ghiacciano le macchine …

Dafoe, i suoi ruoli la mettono spesso in situazioni estreme, di fronte a sfide attoriali assolute.

Credo che faccia parte del mio lavoro e più mi trovo in una situazione estrema per impersonare qualcuno, più sono a mio agio. Perché a quel punto sono le circostanze che ti costringono a essere, è la situazione a importi quello che devi fare. Viene fuori in maniera assolutamente naturale e istintiva, senza un filtro di riflessione o di interpretazione. Ciò non significa che non emergano paure, timori, o ansie.

Perché Siberia?

Ferrara. Una cosa che ho imparato dai monaci buddisti è che non hai bisogno di andare in una caverna in Tibet per ritrovare te stesso, puoi farlo nel tuo appartamento a Brooklyn. Ma il deserto e la Siberia sono cinematograficamente più affascinanti dell’appartamento a Brooklyn. La Siberia, poi, evoca in me concetti come esilio, solitudine, gelo, qualcosa di misterioso e mitico.

Il film è anche un viaggio cinematografico. Sperimenta quali sono i limiti e le nuove possibilità del fare cinema. Che cosa avete scoperto in questo senso?

Dafoe. Un film come questo è una scelta netta rispetto a tanta produzione non solo cinematografica ma anche televisiva che puntando anche sulla durata spesso si basa sulla scrittura e un tipo di narrazione tradizionale. Invece quello che fa Abel è puro cinema proprio perché non c’è una storia o un racconto. Ci propone una serie di immagini. E’ una scelta che comporta dei rischi perché molti si sentono più a proprio agio con una storia. E’ qualcosa che non comprendiamo subito però sentiamo una prossimità, le immagini trovano un’eco dentro di noi e intuitivamente le condividiamo anche se poi ci rendiamo conto che riflettono delle ansie, delle paure che abbiamo. Non dico solo la paura dell’orso feroce, ma della sessualità, dei rapporti interpersonali, di cose che richiamano la violenza collettiva, eventi storici. Non capivo perché Abel insistesse  nel volere una sequenza che richiamasse l’idea dei campi di concentramento, ma vedendo il film ho capito che ha fatto bene

Ci spiegate la storia del pesce parlante?

Ferrara. Siamo partiti da questa storia vera e siamo andati a ritroso. Ero in una piccola pescheria kosher poco fuori New York, negli anni ’90. Un ebreo e un portoricano stavano tagliando un pesce, quando quello ha parlato. Uscì su tutti i giornali tanto che i due protagonisti erano pentiti di averlo raccontato perché furono tormentati dai media per mesi.

Cosa dice il pesce?

“The end is near, be responsible for your action”.

Cristiana Paternò
24 Febbraio 2020

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