Valerio Jalongo: “E’ il sapere che fa la differenza tra la vita e la morte”

Intervista a Valerio Jalongo, in concorso a Visions du Réel con il suo nuovo documentario L'insegna la sete - Storia di classe


La 51ma edizione di Visions du Réel, inizialmente prevista a Nyon dal 24 aprile al 2 maggio, ha dovuto reinventarsi a causa dell’emergenza sanitaria globale, portando la sua programmazione online, con sette giorni aggiuntivi, a partire dal 17 aprile. Tra i titoli presentati quest’anno c’è L’acqua, l’insegna la sete – Storia di classe di Valerio Jalongo, già presente al festival nel 2017 con Il senso della bellezza. Il suo nuovo film, selezionato nel Concorso Nazionale (produzioni e co-produzioni svizzere), sarà disponibile in rete – ma solo sul territorio elvetico, per quanto riguarda l’accesso da parte del pubblico – per un periodo di 24 ore a partire dalle 17 del 25 aprile. L’uscita in Italia, precedentemente annunciata in sala, è prevista a maggio su una piattaforma digitale.

Lopez, un professore in pensione, ritrova in un vecchio giornale di classe “L’acqua, l’insegna la sete”, una struggente poesia di Emily Dickinson che in pochi versi rivela come la vita ci insegni il valore delle cose. Lopez ha conservato tutto di quella classe (la 1ª E dell’istituto Roberto Rossellini di Roma): compiti, temi, e il video diario girato insieme ai ragazzi quindici anni prima. Tanto lavoro e buona volontà, eppure molti ragazzi di quella classe avevano abbandonato prima del tempo, non avevano mai preso un diploma. Un’amara sconfitta per la scuola e per chi ci si era dedicato con passione. Sull’onda di quella poesia e dei suoi ricordi, il prof. Lopez sente il bisogno di sapere cosa è rimasto di quegli anni passati insieme, e parte così alla ricerca dei suoi alunni, che oggi sono ormai dei “vecchi” trentenni. Porta loro in dono i temi che ha conservato. Rileggendoli insieme, riaffiorano confessioni, storie, momenti di scuola… nel corso degli anni non tutto è andato per il verso giusto: ci sono stati momenti drammatici, sconfitte, delusioni. Il prof scopre che nessuno dei ragazzi fa il mestiere per il quale la scuola lo aveva preparato. Ma scopre che ognuno di loro è cresciuto in una direzione diversa e imprevedibile, trovando in se stesso le risorse per reinventarsi: Yari, Jessica, Lorenzo, Gianluca, Corinna, Alessio… A poco a poco emerge un ritratto intimo sul destino di ognuno.

Com’è nata l’idea del progetto?

Nella vita faccio anche l’insegnante, part time, e per molti anni ho insegnato nella scuola Roberto Rossellini. È una scuola di cinema, ma assomiglia molto ad altre scuole professionali, quelle che raccolgono gli studenti che i licei non vogliono, che non sono considerati abbastanza buoni. Dopo un po’ di anni mi sono reso conto che c’era un’importantissima quantità di ragazzi bocciati a ripetizione, fino a perdersi d’animo e lasciare la scuola per sempre. Una quantità per me insopportabile, quasi il 50% dei ragazzi. Ho quindi avuto l’idea insieme a questo professore, Gianclaudio Lopez, di girare un video diario di quello che succedeva, e anche i ragazzi partecipavano al racconto, alle riprese. Questo nel 2004, e abbiamo girato per tre anni. Il progetto prevedeva che si tornasse dopo quindici anni per vedere che fine avessero fatto i ragazzi. La particolarità del professor Lopez è che viveva per la scuola – adesso è in pensione – e aveva conservato tutto. Quando abbiamo cominciato a girare la seconda parte, nel 2017, ha tirato fuori temi che i ragazzi avevano scritto a 14-15 anni e che avevano completamente dimenticato. Devo dire che anche il mio sguardo, come regista e come insegnante, è stato molto cambiato dall’esperienza di questo film.

È il suo terzo documentario in ordine di uscita, ma il primo in ordine cronologico.

Sì, esatto.

Ha influenzato il suo sguardo sugli altri due film?

No, perché sono documentari molto diversi. Però ora che ci penso c’è un filo che li lega: è una trilogia sulla conoscenza. Credo che mai come in questi giorni di quarantena ci stiamo rendendo conto di come la conoscenza faccia la differenza tra la vita e la morte. Pensare che si possa vivere senza tener conto dei segnali che ci dà la conoscenza, la scienza, la cultura, per me è un progetto dissennato che porta alla morte, non solo nostra ma anche del pianeta. C’è questo legame tra i film: Di me cosa ne sai parla di come il grande cinema italiano sia stato disarticolato e sostituito da una pessima televisione; Il senso della bellezza è sulla scienza, sull’arte e sulla loro capacità di interpretare il mondo; e questo, nel suo piccolo, è sugli effetti della conoscenza sulla vita individuale delle persone.

È un film sul sistema scolastico, che il pubblico scoprirà in un momento in cui le scuole sono chiuse. Cosa pensa di questo accostamento?

Questa è una cosa che mi sta a cuore e su cui sto riflettendo. In termini di distribuzione, il film doveva uscire a settembre, alla riapertura delle scuole, ma il distributore mi ha già detto che non ci sarà spazio perché tutti saranno alla ricerca di spettatori e di soldi, e i documentari non guadagnano abbastanza. Adesso però stiamo cercando di capire se sarà possibile farlo uscire in questo scorcio di anno scolastico, mentre tutti sono a casa.

Qual è il suo rapporto con la fruizione del cinema in rete? È abbonato a qualche piattaforma?

No, perché ho una vita abbastanza movimentata, e anche in questo periodo non guardo molto cinema in rete. Quando posso vado in sala. Faccio fatica con i film di finzione sullo schermo del computer, forse è la modalità di visione che mi demotiva. Con il documentario non ho questo problema, perché si lavora di più su un aspetto razionale, sul racconto del reale. Forse è meno coinvolgente dal punto di vista emotivo, ma credo che anche su uno schermo più piccolo il messaggio si trasmetta bene.

Il film è scritto da Jalongo con Linda Ferri in collaborazione con Gianclaudio Lopez. E’ una coproduzione svizzera-italiana AURA Film, RSI Radiotelevisione svizzera, AMEUROPA International con Rai Cinema.

Max Borg
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