Cristina Comencini: “Alice, il rebus e la libertà delle donne”

Arriva direttamente in VOD dal 4 maggio il nuovo film della regista. Che sta lavorando alla sceneggiatura tratta da Le assaggiatrici


Come Alice di Lewis Carroll, solo che il paese delle “meraviglie” è popolato da draghi, orchi e misteri. Cristina Comencini torna a lavorare con Giovanna Mezzogiorno dopo La bestia nel cuore (2005) per un film che ha qualche affinità con quella storia di abusi e rimozioni arrivata fino alla nomination agli Oscar. Alice, una donna sulla quarantina un po’ bloccata e dura, rientra dall’America, dopo una lunga assenza, per la morte del padre, ufficiale della marina Usa. La casa di famiglia, una bellissima dimora digradante sul mare di Napoli, la accoglie con i suoi oggetti, le foto e i vestiti di un tempo. Alice incontra una ragazza giovane e bellissima (Beatrice Grannò) che altri non è se non la sua identità adolescente e presto arriva anche il fantasma di lei bambina. Intanto il vecchio amico Marc (Vincenzo Amato) si fa sempre più insistente: si era occupato di suo padre negli ultimi anni di vita e ora vuole occuparsi di lei.

Un thriller psicoanalitico che arriva, in una versione più breve, aerea e meno cupa rispetto al debutto alla Festa di Roma, direttamente VOD per scelta dei produttori Lionello Cerri e Cristiana Mainardi per Lumière & Co. e di Rai Cinema e Vision Distribution. Dal 4 maggio sarà infatti visibile sulle piattaforme Sky Primafila Premiere, Timvision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital, Rakuten TV. Abbiamo incontrato la regista in videoconferenza. 

Come mai avete deciso di uscire sulle piattaforme?

Credo che il cinema sia fondamentale per farci rivivere. Mi piaceva l’idea di una visione condivisa da tutti anche perché non sappiamo quando e come le sale riapriranno. Amo la sala ma anche la visione casalinga, ad esempio per le serie.

Le sembra che si stia facendo abbastanza per i lavoratori dello spettacolo?

Purtroppo non sentiamo molto parlare di cultura in generale da parte del governo. Per esempio, perché non si approfitta di questo periodo per rinnovare le sale esistenti e costruirne di nuove? La crisi della sala c’era già prima dell’epidemia. Una moria di sale a Roma e nel Sud. L’Europa ha deciso un’azione comune di cui fa parte anche il mondo culturale. Oggi si continua a vedere cinema e si vedono le cose nuove, ci vorrà un piano per la ripartenza che adesso ancora non vedo.

Venendo al film, Tornare usa il potere del cinema per evocare fantasmi. E questo all’interno di una casa, il che risuona profondamente per la situazione che tutti noi stiamo vivendo. 

E’ vero, la casa oggi è molto evocativa, forse ho avuto una premonizione, ma mai quanto Nanni Moretti con Habemus Papam… La casa, finora, era un luogo di passaggio, adesso dobbiamo restare e, come ci spiegano gli orientali, restare è la cosa più difficile. Noi saremo quelli che hanno vissuto questa cosa del coronavirus e ci rimarrà dentro, come la guerra era rimasta dentro ai nostri genitori o nonni. Mi è piaciuta l’idea del passato che viene ad abitare il presente dentro una casa. Il tempo è la materia stessa del cinema. Qui il passato non è solo flashback ma anche compresenza.

Sempre a proposito di case, Tornare è anche un film sull’elaborazione del lutto, un tornare alla casa della propria infanzia e adolescenza. E’ un passaggio che tutti, prima o poi, dobbiamo affrontare.

Il lutto vuol dire anche ripensare a noi stessi. La morte del padre, uomo forte e angosciato dalla bellezza della moglie, riporta Alice nella casa dell’infanzia. La morte dei genitori è un tempo in cui rifletti, di solito non pensiamo mai alla morte, alla sparizione, alla perdita. Invece ti chiedi cosa è successo e perché hai detto o fatto qualcosa. Il lutto è un’operazione della memoria. La nostra vita è piena di buchi, di fotografie e ricordi frammentari, ma tornando dentro di te senti di poter ridare un nome alle cose. Poi il pensiero del lutto è forte in questo momento, con tante persone che muoiono per il virus.

Quanto il film è vicino alla sua esperienza di adolescente? Uno dei temi è proprio questa sessualità libera che gli uomini e i ragazzi non riescono ad accettare e sostenere, che li manda in tilt in un modo o nell’altro. 

Ci sono sempre cose vicine a chi scrive un libro, un film. La Cristina adolescente è sparita per molti anni. Come molte donne ho cercato di essere più seria e la parte pazza è andata a finire nei libri e nei film. Invece adesso è tornata con spensieratezza tutta la follia di un’intera generazione, quella degli anni ’70, il contatto, la sessualità, l’incontro libero. In quegli anni le donne hanno pensato di poter fare tutto, ma non era vero, perché l’atteggiamento degli uomini non era cambiato. Questa ragazza si sente libera ma non era possibile allora e forse neanche adesso. Però dice alla se stessa adulta: guarda com’eri, saltavi da un muro sospeso nel vuoto mentre adesso hai le vertigini.

Lei ha definito il film un thriller dell’inconscio.

Sì, perché non può essere del tutto comprensibile come un thriller realistico, le associazioni sono spesso inconsce, ci sono passaggi che si intuiscono, è come un rebus, con oggetti che appaiono e scompaiono, segue l’emotività della protagonista. Se cerchi di capirlo razionalmente, non tutto torna. Ma io sono una spettatrice emotiva.

Chi non ha  mai desiderato di parlare con la se stessa adolescente per avvertirla e consigliarla?

Ma in questo caso è il contrario: è Alice adolescente che vuole dire delle cose all’adulta. Ancor più la bambina, che ha una sessualità debordante e libera, non legata a un oggetto. Le dice che sta facendo un errore. Mentre non si può cambiare ciò che è accaduto, la tua giovinezza può avvertirti che nelle tue scelte presenti stai tradendo quello che eri.

Come mai Napoli

Napoli è una città stratificata per eccellenza. La amo anche perché mia madre era napoletana e io lo sono per metà. Ho girato davvero in posti deserti, come lo sono adesso, perché volevo che Alice si aggirasse come in un rebus. Ho trovato questa casa dove si entra scendendo verso il mare, e ci sono delle grotte, un cunicolo. E’ una casa mentale. Volevo una Napoli metafisica.

C’è un rapporto diretto con la psicoanalisi in questo film.

Non la racconto come l’analisi sul lettino, ma come procedimento interno, vicino alla creazione letteraria o cinematografica, con libere associazioni che arrivano a formare una storia. La psicoanalisi mi ha affascinato e mi ha curato. Tanti autori meravigliosi hanno immaginato storie e luoghi psicoanalitici, Lynch lo fa in modo magistrale.

Il riferimento ad Alice nel paese delle meraviglie quando e come è arrivato?

Le due cosceneggiatrici, Ilaria Macchia e Giulia Calenda, erano consapevoli del parallelo da sempre, mentre io me ne sono resa conto solo a tre quarti perché la scelta del nome Alice era stata per me inconscia. Lewis Carroll aveva una sessualità disturbata, ma la bambina che racconta non è subalterna agli uomini, cerca la sessualità ovunque.

Perché ha scelto Giovanna Mezzogiorno?

Ci sono delle assonanze con La bestia nel cuore che avevo fatto con Giovanna. Nel frattempo lei si è trasformata, è cambiata, ha avuto i figli, come me del resto. Poi il cinema è fatto di affettività, ci sono dei legami che restano. E’ un’attrice che lascia trapelare dallo sguardo le cose che pensa. In parti drammatiche riesce a trasmettere paura, timidezza, angoscia, violenza. La giovane Beatrice Grannò è una scoperta e un po’ le somiglia.

Sta lavorando al film tratto da Le assaggiatrici, il romanzo di Rosella Postorino. Come vede la possibilità di riprendere la produzione?

Stiamo scrivendo alacremente il trattamento grazie agli incontri a distanza, come questo. La tecnologia in questo momento è fondamentale, siamo molto efficienti e veloci, ma le idee nascono anche dall’inefficienza. Qualcosa si perde. Per la fine della pandemia penso sarà pronto un trattamento. La produzione va ripresa con delle regole, magari non si potranno usare le comparse, forse gli attori dovranno stare in quarantena.

Parliamo della libertà sessuale della giovane Alice, che sperimenta un rapporto gioioso con il suo corpo ma viene fraintesa dagli uomini. La vogliono reprimere, come il padre, oppure capiscono che possono violarla.

Il padre è il primo uomo che le bambine incontrano, da lui, da come le tratta e le guarda, dipende molto del rapporto con gli uomini. La libertà di Alice è anche una reazione alla chiusura del padre. Ma il film gira intorno alla paura della sessualità femminile. I ragazzi la temono e la vogliono controllare. L’ho sperimentato io, come tutte, anche le ragazze di oggi che hanno visto il film a Milano alla fine erano in lacrime. Non vengono accettate, vengono viste come ragazze poco serie.

La struttura del film è circolare, quasi un film matrioska.

Ho scritto un libro che si intitola Matrioska. La circolarità è il tentativo di far convivere le nostre tante identità senza cancellarle, come mi ha detto un’amica psichiatra. Spesso la memoria procede per cliché, le fotografie ci danno l’idea di qualcosa di fermo, i drammi vengono coperti. Mio padre era un grande fotografo, ho tante foto mie. Ma adesso faccio pochissime foto, perché fare foto è come dare la chiave di lettura di se stessi.

Tornando al discorso della libertà, lo allagherei anche alla libertà creativa. Perché le donne devono ancora faticare così tanto per far sì che la propria voce sia riconosciuta nella sua unicità, spesso vengono fraintese, devono fare una fatica doppia.

Mi importa molto spingere le giovani donne a fare la regia. E devo dire che un problema che abbiamo è che gli uomini non sono interessati a vedere film con protagoniste donne. Ieri sera ho rivisto I senza nome di Melville, un film bellissimo con Alain Delon, Gian Maria Volonté, Yves Montand. Tutti uomini, si vede solo una donna a letto che non parla e nella scena di un night delle donne che ballano. Va bene così, ma non è vero l’inverso. Uno spettatore maschio non va a  vedere Piccole donne o quello stupendo film di Céline Sciamma Ritratto della giovane in fiamme. Ci sarà un senso profondo di accettazione dell’arte femminile quando un maschio vorrà sapere cosa passa nella testa delle ragazze. E’ una camminata nel deserto, molto dura e lunga, ma dobbiamo farla.

Cristiana Paternò
30 Aprile 2020

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